
GAY , IL BUSINESS E’ TOLLERANTE
Era il 1987 quando un cliente della réclame Renault baciava un fusto di meccanico della propria officina: uno scandalo che apriva l’Italia a un business da capogiro. Da Nikos a Moschino, a Vigorsol a Bailey’s, l’industria pubblicitaria non ha resistito ai dati Eurispes: un terreno di 5 milioni di gay nostrani (dichiarati, ma si stima raggiungano il 5-10 per cento della popolazione) rappresentano un’occasione fin troppo ghiotta per non reinventarsi un target già rodato in America. Donne o uomini che siano, a rendere appetibili i nuovi trend setter vi è in primis il dato di un reddito superiore alla media e che, al mantenimento di un’intera famiglia, oppone la somma di redditi spesso analoghi dei partner felicemente orientati allo shopping selvaggio.
Illuminante un articolo comparso lo scorso anno sull’Economy di Zornitza Kratchmarova che fotografava i gay del Duemila; gli stessi che, secondo uno studio della Gpf&Associati del sociologo Giampaolo Fabris per Gay.Tv, spendono annualmente quasi 20 miliardi di euro in abbigliamento (332 euro al mese tra vestiti e accessori), il 70 per cento possiede un computer, il 74 naviga regolarmente su internet, l’88 possiede un cellulare (e il 30 la bellezza di tre schede), il 60 parla una seconda lingua, il 54 è titolare di una carta di credito; gli stessi che, secondo l’Eurisko, viaggiano il 14 per cento in più rispetto agli etero, spendendo fino a 4 mila euro per ogni singolo viaggio. L’Economy li aveva definiti veri e propri «mercati emergenti» al pari di allergici, mancini, calvi o oversize, che «vorrebbero reperire sul mercato prodotti particolari, adatti alle loro esigenze», cosa tutt’oggi confermata da un giro di affari che da bar, locali, discoteche e strutture alberghiere appositamente per gay, ricava circa 600 milioni di euro.
Ma il terreno della targetizzazione gay è rinomatamente scivoloso, e a darne conto è paradossalmente l’apripista in Italia: pur decuplicando in dieci anni i suoi volumi, l’advertising sui media del settore (eccezion fatta per fedelissimi alle cause “strane” come Benetton, l’incappucciatore della Tour Eiffel con mega-condom, amato dal mensile gay Babilonia) resta incomparabile a quella dei colleghi d’oltreoceano.
L’esempio Fiat (con moderna station wagon per “lui, l’altro e il cane”), o Alitalia, raccontano di un mondo aziendale che pur investendo sui media gay all’estero, non osano farlo in patria. Perfino l’industria della moda, patria del gay style, non gioca a creare icone pubblicitarie, e risale a non troppo tempo fa il grido di allarme della satellitare Gay.Tv, finanziata da una holding di capitali olandesi, che al suo terzo anno di vita rischia la chiusura.
Hanno trovato l’America…
… appunto, in America. Gli States, dove l’economia gay è oggetto di innumerevoli ricerche che stimano il potere d’acquisto dei loro 20 milioni di gay dai 450 agli 800 miliardi di dollari. Dove la famiglia gay ha un reddito annuo di circa 57 mila dollari. Dove l’industria della carta stampata rivolta alla comunità gay e lesbo, ha registrato un più 28 per cento nell’adv e un più 242 nelle inserzioni, accaparrandosi i budget di 150 delle più ricche aziende d’America, come Gucci, Vuitton, Versace, Diesel.
E dove un economista come Richard Florida, col suo gay index ha fatto scuola fino a casa nostra. Titolava pochi mesi fa Affari&Finanza, “Il segreto della crescita sta tutto nelle tre T”, T come Tecnologia, Talento e. Tolleranza, quest’ultima misurata proprio sull’indice di concentrazione gay nelle città. L’assioma di Florida, riproposto da Mondadori col titolo La nascita della nuova classe creativa, è semplice: maggior vivacità culturale e accoglienza attira maggiormente gay e “creativi” in grado di smuovere l’«economia della conoscenza» in aziende che poi risultano crescere meglio delle altre. Ago della bilancia, proprio il grado di Tolleranza – spiegava Marco Zamperini, capo dei laboratori di ricerca Etnoteam sempre ad A&F – «perché tolleranza significa che c’è mentalità aperta e il nuovo non fa paura». Un assioma che va spopolando nelle aziende e che rappresenterebbe l’ancora di salvezza per il fatturato pubblicitario, insieme allo sdoganamento dello spot gay già in atto da Pirelli, Campari, Valtur, Ikea, Sony Ericsson. E poi c’è internet, e l’internet gayo equivale a un giro di affari da 2,7 milioni di euro capitanati in Italia da Gay.it, ottavo sito al mondo per numero di frequentatori con 6 milioni di pagine viste al mese, e dove banner, loghi e immagini la fanno da padrone.
… E pure le carte di credito
Un aerostato colorato come quando rapiscono le Simone di turno contrassegna la Rainbow card – gruppo Sanpaolo Imi, circuito MasterCard – che «è bella. Esprime tutti i colori della libertà», ci informa it.gay.com/cartarainbow, e soprattutto, «puoi richiedere la carta aggiuntiva, per il tuo compagno» «senza pagare alcuna commissione annua» perchè «Carta Rainbow MasterCard è l’unica che riconosce le coppie gay». E poi «è solidarietà», devolve una quota delle spese oltre che ad associazioni che assistono malati di Hiv, all’«educazione contro l’omofobia nelle scuole e nella società, nell’orientamento e nell’aiuto ai giovani gay ed alle giovani lesbiche». Già l’American Express, consapevole dell’enorme potenziale di questa fascia di clienti, si era appellata alla Pride company attiva nel campo dei servizi telefonici e on line gay e lesbici, per portare avanti una Pride Card destinata a un’utenza omosessuale.
Ma che ci fanno con tutti ‘sti soldi?
Viaggiano, prediligono strutture gay friendly e luoghi gay haven: 40 milioni di arrivi in Europa che generano una cifra di affari di 150 miliardi di dollari l’anno. Con Austrian Airlines, Bmi, American Airlines, Air Canada, Avis e Ufficio del Turismo di Manchester, Vienna, Montréal, Key West, Andorra: sono solo alcuni degli operatori internazionali che hanno puntato sugli investimenti nel settore. Raggiungono il non plus ultra dei gay haven a Ibiza o Mikonos, o le grandi capitali europee. Si ritrovano a Montréal, New York, Miami, Los Angeles, San Francisco, Rio de Janeiro, Cancun, Sydney, Bangkok, Cape Town. In strutture rigorosamente gay friendly, 30 euro all inclusive in città come Lisbona. Parola del sito Bigtraveller.com, ricchissimo di spunti alla gayo Confucio. Membro dell’Associazione internazionale del turismo gay e lesbico, amante di linee che investono nel settore e portano a mete dove «i diritti gay non siano calpestati quotidianamente», il sito asserisce: «i soldi provocano ricchezza, la ricchezza aiuta ad educare la gente verso un mondo più tollerante, questo si concretizza in più diritti per le minoranze, gay inclusi». Organizza eventi sportivi, crociere e settimane a tema rigorosamente gay. Consigliano, per avvicinarsi al mercato gay «in modo fruttuoso», «un piano di azione», «creare un budget e business plan con una cifra stabilita e un ritorno, farsi conoscere con pubblicità nei media del settore, supportare e/o sponsorizzare eventi gay.». Anche Gay.it dichiara di aver fatturato con l’agenzia online Out Travel, collegata al sito, 600 mila euro di viaggi. Adesso appoggiano il comitato del sì al referendum sulla legge 40 e lanciando appelli in salsa gospel e campi di cotone. Dicono di non poter vivere in paese che non rispetta la libertà individuale. Bene, almeno noi etero sessisti non dovremo pagargli il biglietto per emigrare.
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