
Gay non gai
Leggo sui giornali le solite cose, come le discussioni su sì o no alle adozioni per coppie gay o lesbiche (vedi la posizione alla Blair di settori della Chiesa anglicana), sul riconoscimento delle coppie di fatto tra le quali le suddette, e così via. Nello spirito di non discriminazione si discuterà poi del sacerdozio per gay e anche lesbiche. Osservo il carattere calcolistico di questa problematica: tutte le possibilità psicologiche e biologiche dell’uomo devono, secondo questa cultura, essere positivamente contemplate con giurisprudenza egualitaria. Ricordo una coppia omosessuale (non dico “gay”) degli anni ’70, che con stile viennese-tzigano d’altri tempi girava suonando nei ristoranti del centro di Milano, violino e chitarra. Erano bravi e discreti e gli avventori dei ristoranti li ricompensavano rispettosamente. Ne ricordo altre consimili. La cultura gay, anzi il partito gay, le ha spazzate via tutte. È tutt’altra cosa: un partito, con il suo proletariato senza prole, un programma politico benché trasversale, una gerarchia, dei quadri, eccetera. Lenin non aveva pensato che il suo modello fosse esportabile. È un’idea di società, cultura, politica, vita o s-vita individuale. L’omosessualità stessa ne è solo una variabile dipendente, e sfruttata come tale. La “cosa” è gay ma non gaia.
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