Giovannino non doveva sopravvivere. Eppure è qua

Di Caterina Giojelli
13 Maggio 2024
Luca ed Emanuela cinque anni fa sono entrati all'ospedale Sant’Anna e hanno visto uno di noi: non una malattia, una vittima, un miracolo laico. Ma un figlio

Avete mai visto un bambino con l’Ittiosi Arlecchino? Luca ed Emanuela sì. E quando incontrarono Giovannino, da quattro mesi in attesa di una mamma e un papà, non pensarono «c’è da sperare davvero che non sopravviva». Pensarono che Giovannino sarebbe diventato loro figlio. E quando lo vide il dottor Daniele Farina, direttore della Neonatologia dell’Ospedale Sant’Anna di Torino, non vide un bambino che «chiunque di noi abortirebbe», ma il «figlio di tutto il reparto: ha 40 mamme e 10 papà». E quando seppe di lui padre Carmine Arice (padre generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza) non provò a «identificarsi con i genitori», ma con Giovannino stesso, scrivendogli una lettera per accoglierlo subito al Cottolengo: «Caro Giovannino, tu una casa ce l’hai: la nostra casa è la tua casa!».

Ricordate? Era il 2019 e mentre il Sant’Anna veniva bombardato da richieste di adottare o aiutare Giovannino, un bambino concepito con fecondazione assistita e abbandonato dai genitori appena venuto al mondo, il dottor Silvio Viale pubblicava la foto di un neonato con l’Ittiosi Arlecchino: «Comprendo perfettamente la scelta dei genitori di non riconoscere il neonato (…) Chiunque di noi, potendo conoscere la diagnosi durante la gravidanza, abortirebbe (…) Bisogna avere il coraggio di guardare le foto reperibili su qualsiasi motore di ricerca. C’è da sperare davvero che non sopravviva». E ancora: «La gara di solidarietà? Penosa».

La macchia di una malattia genetica

Silvio Viale guardava Giovannino e ci vedeva solo la macchia di una gravissima malattia genetica, la pelle spaccata in grosse placche squadrate, gli arti contratti, le membrane di bocca e occhi rovesciate all’esterno. Vedeva la macchia della malattia, come Massimo Giannini vedeva solo la macchia della colpa dei genitori, come Massimo Gramellini solo quella irradiata dalla luce di un «miracolo laico», «un moto emotivo», «un’onda irresistibile che lubrifica gli occhi e allarga i sorrisi».

Quello che lo scienziato, il giustizialista e il poeta non vedono

In quei giorni gli Alymer «intenti a tagliar via l’umana imperfezione facendo progressi anche sulla materia prima del bene» che Nathaniel Hawthorne vedeva come una minaccia si moltiplicavano (ricordate il racconto citato da Flannery O’Connor nel suo testo Il mistero di Mary Ann? Alymer non vedeva che una voglia, sulla guancia di sua moglie Giorgiana). La macchia c’era, eccome se c’era, ma non era la malattia terribile di Giovannino. Non era soltanto la decisione dei suoi genitori di non riconoscerlo (era stato tanto voluto, leggevamo sui giornali, strenuamente voluto), ma il modo in cui era stato concepito.

Attraverso cioè la tanto decantata fecondazione assistita che porta con sé il progetto dell’umano, che instilla il criterio della qualità del nascituro rendendo così maledettamente difficile accoglierlo e maledettamente facile scartarlo. Una macchia che il Corriere e Repubblica si guardarono bene dal mostrare, omettendola nella ripresa della storia di Giovannino raccontata per prima dalla Stampa.

Quello che non sapevamo, mentre eravamo lì fuori a dibattere, è che Luca ed Emanuela avevano incontrato Giovannino. E ci avevano visto tutto tutto, ma soprattutto quello che lo scienziato, il giustizialista e il poeta non vedevano oltre l’Ittiosi Arlecchino: un figlio.

Silvio Viale è ginecologo dell’ospedale Sant’Anna di Torino, lo stesso ospedale dove si trovava Giovannino, il bimbo affetto da Ittiosi di Arlecchino, abbandonato dalla madre e dal padre dopo la nascita
Silvio Viale è ginecologo dell’ospedale Sant’Anna di Torino, lo stesso ospedale dove si trovava Giovannino, il bimbo affetto da Ittiosi di Arlecchino, abbandonato dalla madre e dal padre dopo la nascita

Non serve il dottor Viale per spiegare cos’è un bambino malato

Non c’era bisogno di alcun dottor Viale per spiegare loro cosa fosse un bambino malato. Emanuela è una infermiera provetta, i due sposi fanno parte dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII di don Benzi, hanno quattro figli naturali e in 30 anni hanno accolto oltre 40 bambini. Hanno anche adottato Karim e hanno in affido Marco che ha la Sindrome di Down: oggi i due hanno 18 e 27 anni, ma sono arrivati da Luca ed Emanuela a 5 mesi di vita, il primo dopo la dichiarazione di adottabilità e l’altro dopo l’abbandono dei genitori naturali. Un po’ come Giovannino.

Oggi Giovannino ha compiuto 5 anni e quei due genitori affidatari sono diventati suoi genitori adottivi. E così, il giorno della sua festa di compleanno, hanno deciso di invitare anche Avvenire e raccontare chi è diventato quel bambino che «non avrebbe dovuto sopravvivere». Un bimbo a cavalcioni di una macchinina dei pompieri, che salta sulla rete elastica, si tuffa tra le palline per la psicomotricità, sgambetta furioso aspettando i compagni dell’asilo del piccolo paesino del cuneese.

«Giovannino ha una vita felice perché lui è felice»

Abbiamo letto dei pensieri di mamma e papà, sebbene il piccolo sia «beniamino della classe», per gli sguardi degli altri genitori che ancora si soffermano sul loro ragazzino dalla pelle rossastra, le orecchie incollate al cranio, una manina a cui mancano due dita. Abbiamo letto di giornate piene di fratelli, giochi, cure e figure che si avvicendano intorno a Giovannino e Maria Vittoria (una bimba con grave disabilità in affidamento familiare in casa di Luca ed Emanuela), di ore trascorse tra la scuola materna, dove il bimbo è seguito da una insegnante di sostegno, e le sedute di neuropsicomotricità. Sappiamo che al mattino Giovannino deve essere lavato accuratamente con speciali soluzioni e quattro volte al giorno la sua epidermide deve essere idratata con creme speciali. E che di notte un sondino enterale lo aiuta a integrare la sua alimentazione (Giovannino ha un consumo metabolico basale superiore al normale).

«Non neghiamo che questi anni siano stati impegnativi e per questo non giudichiamo i genitori naturali, pensiamo che si siano trovato di fronte a una situazione inattesa e che si siano sentiti soli. Ma la vita fragile merita tutto il nostro amore. A chi dice “che futuro può avere questo bambino?”, rispondo che per ora è nella norma, domani non lo so. A chi pensa che sia un povero infelice, rispondo che Giovannino ha una vita felice perché lui è felice, buono, allegro, gioia pura; talvolta sente su di sé gli sguardi degli altri, qualche parola cattiva di troppo, ma non ci bada. Non per ora, più avanti non lo so», dice Emanuela ad Avvenire.

Oggi Giovannino è felice, ditelo a Silvio Viale

Oggi Giovannino vive come i suoi compagni, è felice come loro che non hanno malattie terribili. «Un giorno andrò a trovare quel medico», promette Luca parlando del dottor Viale (le sue esternazioni gli sono costate un procedimento disciplinare), «gli presenterò Giovannino e gli racconterò che ventata di gioia e di amore ha portato tra noi. La sua è una storia di fragilità, certo, ma soprattutto di infinita voglia di vivere». O sarà Giovannino stesso a farlo.

Nessuno fra i giornali che per settimane si è occupato di Giovannino ha ripreso la storia pubblicata pochi giorni fa da Avvenire. Il “moto emotivo” lodato da Massimo Gramellini non poteva che durare il tempo di una emoticon a forma di cuore. Guardiamo le foto di questa famiglia: ripensiamo alla Mary Ann della O’Connor e alle sue giornate colme di molti e diversi amici, da «pazienti malati come lei a bambini portati alla Casa per farle visita e ai quali, quando andavano via, veniva forse detto di pensare quanto dovessero essere grati a Dio per aver dato loro una faccia perfetta. Ma c’è da chiedersi se qualcuno di loro fosse altrettanto fortunato di Mary Ann».

Scrivevano che nessuno si sarebbe fatto avanti per prendersi cura di Giovannino. Si chiedevano cosa significasse essere genitori, non si chiedevano cosa fosse essere un figlio. Eppure è tutta una questione di figliolanza: sapere di essere al mondo perché qualcuno ci ha voluti e amati. Luca ed Emanuela sono entrati al Sant’Anna e hanno visto uno di noi: non una malattia, una vittima, un miracolo laico. Ma un figlio.

Foto di Kelly Sikkema su Unsplash

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