Grilletto su Kaboul pensiero a Gerusalemme

Di Gian Micalessin
04 Ottobre 2001
Pakistan e Arabia Saudita. Fino a che punto gli ex-protettori di Bin Laden sosterranno l’offensiva alleata contro i Talebani? Mentre in Israele e Palestina ogni tregua viene sistematicamente violata dalla furia devastatrice di un conflitto sempre sull’orlo di sfociare in guerra aperta. Ecco perché, vista dal Medioriente, l’operazione “enduring freedom” potrebbe trasformarsi in un’impresa maledettamente complicata di Gian Micalessin

Gerusalemme. «I veri problemi incominceranno soltanto il giorno dopo il primo attacco». «Per quanto nessuno si sia assunto la responsabilità degli attentati terroristici e le smentite formali di Osama Bin Laden la rabbia americana è concentrata sulla sua organizzazione e sull’Afghanistan dei Taleban». Le due insidiose frasette sono contenute in un commento pubblicato dal Jerusalem Post e firmato da Shlomo Gazit, ex-capo dell’intelligence militare israeliana. Due frasi sicuramente non scritte a caso, in cui nascondono le vere incognite della crociata americana contro il terrorismo. La prima riguarda la coalizione e la sua capacità di tenuta in quella che George W. Bush ha preannunciato come una «guerra lunga e sanguinosa». La seconda riguarda la vera identità dell’organizzazione che ha portato a temine gli attentati contro le torri gemelle. È stato veramente Bin Laden? O meglio è stata soltanto l’Al Qaida di Bin Laden, con la copertura del regime afghano a garantire la riuscita del crimine terrorista più sanguinoso della storia?

Quanto durerà (se durerà) l’Alleanza con i paesi arabi?

Per rispondere alla prima domanda è necessario andare indietro di dieci anni e ricordare come venne preparata la guerra contro Saddam Hussein da Bush padre. Alla vigilia della guerra del Golfo l’obiettivo di Desert Storm era chiaro: la restituzione della sovranità territoriale al Kuwait. Il nemico era davanti agli occhi di tutti: Saddam Hussein, colpevole di aver invaso senza preavviso uno stato sovrano. Saddam in quel caso non era solo il nemico degli Stati Uniti. Combattendo contro l’Iran, facendo concorrenza al petrolio saudita, appoggiando i nemici interni di Damasco e minacciando militarmente i suoi vicini il rais di Baghdad si era inimicato tutto il Medio Oriente. In questo contesto Bush padre e Colin Powel ebbero facile gioco nel trascinarsi dietro nazioni come Siria, Arabia Saudita, Egitto e garantirsi la neutralità di un Iran appena uscito da un conflitto sanguinoso con gli iracheni. Un altro vantaggio fu l’impegno israeliano a restare estraneo al conflitto. Un impegno, rispettato nonostante la minaccia dei missili Scud, che levò alle nazioni arabe l’imbarazzo di far parte di una coalizione inquinata dal proprio peggior nemico. Anche sul piano politico la coalizione del ‘91 appariva ben più consistente. Grazie al mandato approvato al Palazzo di Vetro l’alleanza combatteva in nome e per conto dell’Onu. A dieci anni di distanza tutto questo non esiste più. Alla vigilia di una guerra insidiosa contro un nemico oscuro e invisibile gli Stati Uniti si ritrovano a dover fare i conti con la fedeltà dei propri alleati medio orientali.

I dubbi sulla “tenuta” di Arabia Saudita e Pakistan

I dubbi più seri riguardano l’Arabia Saudita e il Pakistan. Il regime di Riyadh, dal punto di vista ideologico, sembra molto più vicino ai proclami di Osama Bin Laden che non alle democrazie occidentali. L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta governata secondo le regole del movimento wahabita, una setta intollerante e puritana sviluppatasi nel 18esimo secolo e diventata allora il motore della lotta alla dominazione turca. Il movimento wahabita ha tra i suoi precetti l’esportazione della guerra santa, è alla base del moderno fondamentalismo e rappresenta la molla ideologica e finanziaria che agli inizi degli anni ‘80 spinse migliaia di volontari islamici a combattere in Afghanistan. A finanziare i viaggi dei volontari del Jihad non furono soltanto uomini come Osama Bin Laden, ma anche le numerose fondazioni wahabite legate al potere saudita. La penetrazione wahabita in Afghanistan si realizzò attraverso la complicità dei servizi segreti pakistani che, alla fine, riuscirono, attraverso il movimento taliban, ad assicurarsi il controllo del paese. Dunque i due principali alleati di Washington, quelli che dovrebbero fornire il retroterra per il dislocamento di forze aeree e terrestri sono gli ex complici del regime Taliban e in qualche modo del movimento ideologico legato alla Al Qaida di Osama Bin Laden. La posizione più ambigua è sicuramente quella dell’Arabia Saudita. Legato agli Stati Uniti da interessi prevalentemente economici il regime di Riyadh sembra da qualche tempo un alleato tutt’altro che fedele. Anzi pronto, secondo alcuni osservatori, a trasformarsi in un potenziale nemico. La metamorfosi di Riyadh è strettamente collegata alla malattia di re Fahd, il sovrano amico di Washington, e all’irresistibile ascesa del principe ereditario Abdallah, legato ai circoli più conservatori e anti-occidentali del movimento wahabita. La diatriba familiare sarebbe sfociata ultimamente in quello che molti analisti definiscono un golpe dinastico. Dal 18 settembre re Fahd si trova in Svizzera, rinchiuso assieme ad una vasto seguito di familiari nella sfarzosa villa sul lago di Ginevra. Ufficialmente il sovrano ha lasciato il paese perché bisognoso di cure e per sottrarsi al rischio di attentati. Voci di palazzo parlano invece di un vero e proprio esilio, imposto dal principe Abdallah. La fazione del principe ereditario ha iniziato la sua scalata al potere qualche settimana prima degli attacchi alle torri gemelle silurando il principe Turky, responsabile da 25 anni dei servizi segreti sauditi e uomo di fiducia degli Stati Uniti. Oggi molti servizi segreti occidentali si chiedono se con il principe Turky al suo posto sarebbe stata possibile l’infiltrazione negli Stati Uniti di almeno dodici terroristi provenienti proprio dal regno saudita. L’altra coincidenza temporale riguarda la “partenza” di re Fahd. L’aereo-ospedale del sovrano lascia Riyadh soltanto poche ore prima dell’arrivo, in terra saudita, del generale dell’aeronautica statunitense Charles Wald. Il generale in teoria dovrebbe insediarsi al comando della task force aerea incaricata di lanciare i raid contro l’Afghanistan. Ma quando arriva ai cancelli della modernissima base di Sultan, sede designata del comando alleato, Charles Wald si trova le porte sbarrate. Una delegazione saudita gli notifica sbrigativamente il divieto di utilizzo di quella base. Il “niet” saudita, tenuto discretamente celato dalla Casa Bianca e dal Pentagono, diventa semi-ufficiale il 30 settembre quando il ministro degli esteri saudita principe Sultan, ritenuto fino a pochi giorni prima vicino agli americani, dichiara in un’intervista di non voler accettare nelle basi del proprio paese un solo soldato in guerra contro musulmani e arabi. E qui incominciano i veri guai.

Palestina sull’orlo dell’abisso

La defezione dell’Arabia Saudita, ritenuta ufficialmente il principale alleato arabo degli Stati Uniti, rischia di dare il via ad una reazione a catena spingendo molti stati medio orientali già titubanti a rifiutare la richiesta di collaborazione statunitense. I primi a seguire la posizione dell’Arabia Saudita potrebbero essere, per contiguità geografica e opportunità politica, gli Emirati Arabi. La mossa lascerebbe gli Stati Uniti senza basi nella penisola araba. Di seguito potrebbe arrivare il no di Siria ed Egitto, soprattutto in caso di verdetto negativo dell’imminente conferenza Islamica. A questo punto gli interrogativi di Shlomo Gazit sul giorno successivo al primo attacco diventano quanto mai attuali. In questo scenario la prima ondata di bombe, missili e vittime musulmane rischia di sollevare un’ondata di proteste islamiche lasciando gli Stati Uniti soli nel mezzo di un Medio Oriente ostile. Soli in compagnia dell’unico alleato possibile: Israele. E qui lo scenario si fa quanto mai grigio. Da marzo lo stato ebraico è governato da una coalizione di unità nazionale dove il peso dei ministri laburisti, Shimon Peres in testa, diventa sempre più ininfluente. Lo stesso Peres non ha esitato a denunciare, in un’intervista dei giorni scorsi, il crescente ruolo politico dei militari e dell’estrema destra. Un ruolo che spinge il governo ad accarezzare con sempre più interesse l’ipotesi di una soluzione militare del conflitto palestinese. Fino ad oggi, soltanto le pressioni di una casa Bianca impegnata a garantirsi l’amicizia degli stati arabi hanno impedito a Sharon di dichiarare chiusi per sempre i negoziati con Arafat. Qualora il piano di alleanza con le nazioni arabe si rivelasse infattibile cesserebbero anche i richiami alla moderazione a Sharon. Con il Medio Oriente sull’orlo del baratro e gli Stati Uniti soli ed isolati. Bin Laden, condottiero della cacciata degli americani dalle terre musulmane, potrebbe già cantar mezza vittoria.

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