Guerra fredda o pace calda? Ci eravamo tanto disarmati

Di Rodolfo Casadei
06 Aprile 2019
Ecco cosa c’è dietro la decisione di Trump di uscire dal trattato sul nucleare con la Russia. E perché adesso l’atomica la vogliono tutti. Perfino la Germania. Tanto meglio se in formato “mini”

Articolo tratto dal numero di Tempi di marzo 2019.

Se avete paura che possa prossimamente scatenarsi un conflitto atomico, più che del ritiro degli Stati Uniti dal Trattato sulle forze nucleari a medio raggio in Europa (Inf) dovreste preoccuparvi della proliferazione delle armi nucleari tattiche, ovvero delle bombe atomiche a basso potenziale, che sono diventate una priorità strategica della dottrina militare nucleare statunitense dopo la revisione della Nuclear Posture Review (Npr) americana di un anno fa.

La rimozione della minaccia nucleare dall’Europa grazie al trattato del 1987 firmato da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov che poneva fine alla cosiddetta “crisi degli euromissili” è sempre stata più simbolica che reale. La “fine della Guerra fredda”, attribuita alla firma di quel trattato in realtà era stata la premessa dello stesso: fu grazie alla distensione con gli Stati Uniti promossa da Gorbaciov che si arrivò a decidere atti di disarmo reciproco di cui il trattato fu il principale. Atti che avevano un significato politico ed economico più che militare: furono smantellati più di 2.700 vettori a testata nucleare, soprattutto Pershing II e Gryphon da parte americana ed Ss-20 da parte sovietica, con immensi risparmi nei costi di gestione. Ma pochi ricordano che il trattato Inf fa riferimento solo ad armi nucleari a gittata intermedia, cioè fra i 500 e i 5.500 chilometri, schierate a terra, non a quelle aviolanciate o installate su navi o sommergibili, e che riguarda soltanto Stati Uniti e Russia (l’erede dell’Urss). Nessun limite è previsto dal trattato per le altre potenze nucleari, in particolare per i sistemi di difesa francese e britannico. La Francia disponeva allora del missile S-3, capace di una gittata di 3.500 chilometri, che è stato operativo dal 1982 fino al 1996, e che rientrava fra i missili vietati dal trattato. E nessun limite era ed è previsto per la Cina, il paese che maggiormente ha sviluppato sistemi nucleari a medio raggio negli ultimi anni: coi suoi missili balistici Dong Feng Pechino tiene sotto scacco le maggiori basi americane nel Pacifico, come quelle in Giappone e quella nell’isola di Guam, nonché le squadre navali di portaerei statunitensi in navigazione nei mari adiacenti alle coste cinesi, e allo stesso tempo è in grado di minacciare tutti i paesi confinanti e vicini: Russia, India, Giappone, Taiwan, eccetera.

Ragioni ufficiali e ragioni reali

La ragione ufficiale dell’uscita degli Stati Uniti dal trattato sarebbe che la Russia lo ha violato. Effettivamente Mosca ha violato l’Inf a partire dai primi anni del nuovo millennio, quando ha cominciato a testare il missile cruise Novator-9M729, che la Nato chiama SSC-8, il quale ha una gittata di 2.500 chilometri. Washington ha denunciato una prima volta la violazione nel 2009 per bocca di Barack Obama, poi di nuovo nel 2014, e infine nell’autunno scorso quando è stata ufficializzata la prospettiva del ritiro dal trattato. Contestualmente, gli americani spiegarono che le violazioni russe non compromettevano il principio di deterrenza atomica in Europa. L’allora segretario alla Difesa James Mattis dichiarò che per rispondere alle violazioni russe era sufficiente un aumento del numero dei missili cruise nucleari sulle navi e sui sommergibili statunitensi nel Baltico e nel Mediterraneo, oltre al mantenimento di circa 250 bombe atomiche negli arsenali di cinque paesi europei aderenti alla Nato. Di queste almeno 70 del tipo B-61 si trovano in Italia e possono essere sganciate su obiettivi nemici oggi dai Tornado dell’aviazione militare, domani dagli F-35.

Gli americani sanno che oggi non sarebbe possibile convincere i paesi europei a installare rampe a terra per missili balistici nucleari puntati contro la Russia; il massimo che hanno ottenuto in questi anni è stato il “sì” di Polonia e Romania all’installazione sul proprio territorio di sistemi difensivi anti-missile ufficialmente funzionali a intercettare attacchi dall’Iran o dalla Corea del Nord contro l’Europa o contro basi Nato in Europa, in realtà per tenere sotto controllo lo spazio aereo russo coi potenti radar annessi ai sistemi antimissilistici. Un’iniziativa che espone gli Stati Uniti all’accusa di avere a loro volta violato il trattato Inf molto prima di quando l’hanno denunciato: i lanciatori verticali a 24 celle Mk 41 installati in Polonia e Romania per intercettare missili iraniani o nordcoreani possono essere utilizzati anche per lanciare missili da crociera a gittata intermedia con testata atomica.

Qual è allora il senso della decisione dell’amministrazione Trump di decretare la morte del trattato Inf, e perché a suo tempo la Russia ha cominciato a violarlo? «L’obiettivo di Trump è di vendere agli europei i sistemi di difesa antimissilistica americani», spiega Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa. «L’uscita dal trattato è propedeutica all’incremento del fatturato dell’industria militare americana. Ma gli europei potrebbero riservargli una delusione, decidendo di sviluppare autonomamente sistemi di difesa missilistica sotto la nostra completa sovranità, o almeno sotto la sovranità congiunta dei paesi europei che formano un consorzio per sviluppare questo genere di sistemi. Già qualcosa si sta facendo: il sistema di difesa antiaereo e antimissilistico Samp-T è stato sviluppato da un consorzio franco-britannico-italiano».

Tentazioni pericolose

«La disattivazione del trattato Inf significa che russi e americani saranno completamente liberi di produrre armi nucleari a medio raggio, e questo si inserisce nella generale tendenza alla ripresa della corsa al riarmo che riguarda numerosi paesi, non solo Russia e Stati Uniti», ci dice Lucio Caracciolo, direttore di Limes. «Molti non si sono accorti che da quasi due anni in Germania si discute di “atomica tedesca”, sui più importanti giornali tedeschi esperti favorevoli e contrari soppesano le valutazioni strategiche attorno all’ipotesi di trasformare la Germania in una potenza nucleare. Questa tendenza generale si è accentuata dopo la crisi ucraina del 2014, che ha radicalizzato le posizioni di America e Russia e costretto la Germania a grosse riflessioni».

«Dal punto di vista strategico uscire dal trattato Inf è irrilevante», spiega il generale Carlo Jean, oggi analista di geopolitica e scrittore. «L’obiettivo di minacciare o di riequilibrare il rapporto con un avversario per mezzo di armi nucleari a medio raggio lo si può ottenere sistemando testate nucleari su navi e sommergibili, che non rientrano fra i sistemi d’arma vietati dal trattato. In realtà credo che la mossa americana rientri nella politica di Trump contraria a tutti i trattati bilaterali o multilaterali che limitano la libertà di manovra degli Stati Uniti. Inoltre con la sua mossa il presidente americano attira l’attenzione internazionale sulla Cina, che non è parte integrante del trattato e sviluppa i suoi sistemi d’arma senza vincolo alcuno. La questione della potenza cinese è anche l’unico punto su cui gli interessi di Washington e Mosca possono convergere: anche i russi sono preoccupati dell’ascesa cinese sia militare che economica, con una forte penetrazione che oramai non riguarda più solo l’Asia ex sovietica, ma i Balcani e l’Europa centrale, come dimostra il finanziamento cinese alla ferrovia Budapest-Belgrado e la prospettiva di prolungarla fino al Pireo, il primo porto europeo che i cinesi hanno comperato. Ma il motivo principale per cui la Russia ha cominciato anni fa a violare il trattato è che per Mosca è meno costoso raggiungere la parità strategica producendo armi nucleari a medio raggio piuttosto che inseguendo gli Stati Uniti sul piano delle armi convenzionali: è esattamente la stessa logica per cui negli anni Ottanta la Nato schierò gli euromissili in Europa occidentale anziché cercare di riconquistare la parità delle forze convenzionali col Patto di Varsavia».
Secondo il generale bisognerebbe essere più preoccupati del rilancio delle armi nucleari tattiche, cioè delle atomiche a basso potenziale (fra 0,1 e 5 kilotoni, valore quest’ultimo che è un terzo della potenza dell’atomica di Hiroshima), che la Npr americana di un anno fa ha indicato fra i sistemi d’arma che Washington intende sviluppare. Ha scritto Jean che «le armi nucleari non sono più strumenti di “non-guerra”. Non se ne esclude più il loro impiego reale. Per divenire operative devono essere “piccole”». Tuttavia la Npr afferma anche che queste “miniatomiche” sono pensate, come le armi nucleari maggiori, nell’ottica della deterrenza: «Espandere in questo momento opzioni nucleari flessibili, includendo le opzioni a basso potenziale», si legge alla pagina XII del rapporto, «è importante per la conservazione di una credibile deterrenza contro un’aggressione regionale. Innalzerà la soglia nucleare e aiuterà ad assicurare che i potenziali avversari percepiscano che non c’è nessun possibile vantaggio in una limitata escalation nucleare, rendendo l’utilizzo di armi nucleari meno probabile».

Spendere fino alla rovina

«Certo», replica Jean, «la dottrina americana ufficiale è quella della deterrenza, nessuno mai dirà o scriverà ufficialmente che si mettono a punto atomiche a basso potenziale per usarle, ma quando scoppia una guerra si sa come si comincia, ma non come si continuerà. L’impiego di armi nucleari, anche di bassa potenza, costituirebbe un salto di qualità enorme dal punto di vista psicologico. Tuttavia nel caso di uno stato militarmente alle corde, la tentazione di utilizzare armi con scarsa ricaduta radioattiva ma di sicura efficacia aumenterebbe notevolmente».
Per Gaiani il tema è sempre la corsa al riarmo: «Queste mosse americane hanno tutte lo stesso significato: costringere russi e cinesi a rincorrere la spesa militare americana, allo scopo di portare al collasso i loro sistemi politico-economici. L’operazione è pienamente riuscita con l’Unione Sovietica, e ora viene ritentata con le potenze emergenti. Una miniatomica può essere la risposta ideale per distruggere un bunker sotterraneo dove si producono virus letali, ma bisogna considerare che la possibilità di usare armi atomiche a un livello così basso, anche se non provocasse perdite umane enormi, abbasserebbe la soglia d’impiego di questi armamenti, e questo è estremamente pericoloso. Se con l’atomica a basso potenziale tu distruggi il mio Stato maggiore, io risponderò con una rappresaglia superiore, perché hai fatto un uso strategico, non certo tattico, dell’arma nucleare».

Quando i missili salvano vite

Che si riferisse a questo Vladimir Putin quando a dicembre ha messo in guardia dalla possibilità di un conflitto nucleare imminente? «Non credo», commenta Jean. «Stava semplicemente ribadendo la dottrina russa del “first strike” nucleare, cioè la possibilità di usare l’arma atomica come risposta a un attacco convenzionale che metta in pericolo la sopravvivenza delle istituzioni della Russia. Anche in questo caso i russi riprendono dottrine occidentali: gli euromissili degli anni Ottanta servivano a minacciare l’Unione Sovietica di rappresaglia atomica nel caso che avesse deciso di invadere con le sue forze convenzionali l’Europa occidentale, confidando nella sua superiorità in uomini, carri armati e caccia bombardieri».
Jean continua a credere profondamente nella logica della deterrenza: «L’arma nucleare viene ricercata anche dai paesi piccoli a scopo di deterrenza. Se pensiamo all’Iran e alla Corea del Nord, o al confronto fra India e Pakistan, vediamo che l’arma nucleare è pensata in ottica di deterrenza, come ultima barriera per evitare un’aggressione che sarebbe possibile da un punto di vista convenzionale da parte di grandi potenze. L’atomica in verità è un’arma di pace. La Guerra fredda è stata in realtà una pace calda che è durata cinquant’anni e non è diventata guerra guerreggiata anche a motivo del fatto che esistevano le armi nucleari».

Le statistiche sembrano dare ragione al generale. In un grafico allegato alla Nuclear Posture Review viene mostrato l’andamento delle perdite umane in tempo di guerra in un arco di anni che vanno dal 1600 ai giorni nostri. La percentuale di esseri umani sterminati dalle guerre è scesa dal 2,27 per cento di tutti gli abitanti del pianeta nel corso del XVII secolo all’1,31 per cento del periodo che va dal 1800 alla fine della Prima Guerra mondiale; sale all’1,75 per cento negli anni della Seconda Guerra mondiale, poi con l’avvento dell’era nucleare scende allo 0,4 per cento fra il 1945 e il 2000, e allo 0,01 per cento fra il 2000 e oggi.

Foto Ansa

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