L’ultima carta è un romanzo di Maurizio Zottarelli, storia ambientata nella Milano anni Ottanta e Novanta dove un giovane, Sergio Corselli, ventisettenne con la passione del gioco delle carte, dopo un tentativo con una società nel mondo dell’editoria, trova i vecchi amici di un tempo. Sbandati, perdigiorno, gente da galera con mani sporche di grasso e con una donna, la fidanzata, con la quale pensa addirittura di sposarsi. Quando con i vecchi amici torna “il Fiore”, soprannome datogli da ragazzino, tutto viene messo in discussione. I salotti buoni della Milano che conta diventano quasi luoghi da dissacrare. Sono così poveri di vita, che i suoi amici, sanguigni e in alcuni casi bastardi, sembrano davvero il mondo per cui vale la pena vivere, quello che con tutte le carte ancora in mano, o con l’ultima carta ancora da giocare che può davvero salvare il destino di un singolo uomo o dell’umanità intera.
Milano bevuta
L’alcol che scorre, le fregature a poker, il sorriso di una donna che, anche per un solo istante, è capace di creare un sogno, un’utopia, e quello della fidanzata severa e inquisitoria che vede un uomo traballante e le confessa che quel gelato alla frutta che ha mangiato per anni non le è mai piaciuto. Piaceva solo a Fiore. E così, attonito e quasi senza parole, Sergio cammina, cammina, talvolta si ferma e si chiede quando l’hanno fregato i soci della sua società. Mentre pensava di aver scovato un improbabile inedito di Shakespeare o quando, a sua insaputa, avevano già stretto accordi con il capo della grande casa editrice che lui aveva disprezzato e sfanculato in uno di quei salotti tanto sofisticati dal divenire dozzinali?
Quella di Sergio (il Fiore) non è una storia della Milano da bere ma, al massino della Milano bevuta, trangugiata senza tanta prosopopea, tra la notte e il mattino e le fughe in auto nella Bassa.
Cos’è una cosa “carina”?
Tutto ciò però può scriverlo qualsiasi giornalista, sfogliando tra la quarta di copertina e qualche scheda libro, ma io Sergio io l’ho visto davvero, non con la sua banda milanese, ma in un incontro fortuito in una sala consiliare, adibita a festa per un aperitivo. Uno di quei posti che non riesci a stabilire se sono gradevoli, belli o appena appena passabili. E lì, Zottarelli esce dal libro, citando quasi a memoria pagina 82 quando viene pronunciato dagli astanti un aggettivo per descrivere il soffitto in legno: «carino». Una di quelle parole che con “narrazione”, “resilienza” e “comfort zone”, sono diventate di linguaggio comune, spesso decontestualizzante, sparate a caso, buttate lì per coprire il vuoto. E Zottarelli, che di Fiore ha mantenuto la “verve”, si lancia in una pièce teatrale, che tocca gli anni Venti del nuovo millennio, senza fare sconti a nessuno: «Ma che accidenti è una cosa “carina”? Ditemelo cosa è? Per far capire che una cosa è bella davvero si deve dire che è “carina da matti”, “carina da impazzire”, “carina da morire”, “carinissima”. Giuro che se trovo qualcosa di “carinissimo” mi metto a gridare in mezzo alla strada e lo scrivo sui muri. Anzi, da questo momento non ci sarà più niente di “carino da matti”, al massimo di “carino da vomitare”».
Etica ed estetica
Una standing ovation che dal libro diventa carne viva, con i presenti che non sanno più se gli sia partita la brocca o stia parlando davvero seriamente, in una miscellanea che si barcamena tra Umberto Eco che ricordava che «non vi è nulla di fondamentalmente inesatto nel dire esatto, salvo che chi lo pronuncia dimostra di aver appreso l’italiano solo dalla televisione», e Pasolini dove nel “Volgar’Eloquio”, trattando tanto del “genocidio” dei dialetti quanto dell’«imbarbarimento del linguaggio dei giovani», offrì un’analisi sociologica, oltre che linguistica, di forza straordinaria, che sembra scritta proprio in quell’aula consigliare dove Zottarelli ha fatto rivivere Sergio Corselli.
Nell’Ultima carta l’autore butta lì, in meno di una riga, ricordando la sua ex ragazza, il sunto di un concetto che ha sapore di dramma e verità, nostalgia e realismo, universalità e trascendenza. «Quando una cosa bella entra nella vita, poi non ne esce più». E qui l’autore lascia una traccia di sé, si spoglia davanti al lettore, permette allo stesso, se è in grado di coglierlo, che «l’estetica è la madre dell’etica» come disse Iósif Aleksándrovich Brodsky dal podio di Stoccolma, nel lontano 1987, nella lettura del suo discorso per l’assegnazione del Premio Nobel.
E da ora in poi, fate caso ai muri di Milano, e se trovate la scritta “carino da vomitare” non vi son dubbi che l’abbia scritta Zottarelli in una di quelle sere in cui era ancora indeciso se era meglio avere ancora tutte le carte in mano, o l’ultima ancora da giocare.
Maurizio Zottarelli, L’ultima carta, Morellini Editore, 256 pp, 16,90 euro