I BUONI SAMARITANI DELLO TSUNAMI

Di Marina Corradi
27 Gennaio 2005
Alle cinque del mattino in ogni angolo di ogni paese islamico ti svegliano le preghiere dai minareti.

Alle cinque del mattino in ogni angolo di ogni paese islamico ti svegliano le preghiere dai minareti. Ancora è notte e qui si prega, da noi da tempo hanno legato le campane dell’alba. Ascolti, nel buio, la voce del muezzin che salmodia grave, rotta a tratti nei singulti, sempre uguale nel tono. Non una melodia che si sviluppa, ma il ripetersi della stessa frase che torna su se stessa. Sottomessa, implorante; ma sempre ricondotta poi a quell’ultimo costante tono basso. Come se a questo Dio ci si potesse prostrare, ma non alzando gli occhi fiduciosamente domandare, come a un padre si domanda. In quell’abbandono, in quella speranza che secoli di musica sacra cristiana testimoniano. La travolgente speranza dei figli del Dio cristiano.
è vero, l’islam prega ancora prima che sorga il sole, e durante, e dopo il tramonto – noi abbiamo quasi smesso. Noi abbiamo legato le nostre campane. Tuttavia, anche in chi del cristianesimo ha dimenticato la memoria, quella radice è rimasta, profonda, e dell’Occidente s’è fatta respiro e motore. Lo vedi in Indonesia, sulle coste devastate dal maremoto, dove domina l’islam più integralista. La gente subisce con estrema dignità la sciagura. Ma dopo quasi un mese trovi gli scampati tra i resti delle rovine o nei campi profughi, come rassegnati. A poca distanza dalla strada ancora sono ben visibili alcuni cadaveri. Lì restano. Gli uomini passano, e vanno oltre.
Incroci le task force degli eserciti americano e australiano. Hanno costruito i campi per i rifugiati, rifatto i ponti, bonificano ogni giorno l’acqua. Perché sono qui? La naturale umana solidarietà? Ma gli uomini non nascono naturalmente solidali. Entrate in un asilo nido, e guardate quanto sono solidali gli uomini, a due anni. Venire qui, fra i morti e le rovine e il colera, perché? Forse i soldati del Mississippi e del Colorado non ne hanno più la memoria, ma c’è un motore profondo e antico che spinge l’Occidente. La parabola del Samaritano, letta e respirata per milioni di volte, di padre in figlio, di generazione in generazione, dalla vecchia Europa al Nuovo mondo e poi con l’orribile colonialismo in Asia e in Africa, è entrata nel dna nostro, e di quei popoli che con l’Occidente sono venuti in contatto. Per questo dopo una catastrofe si muovono, e vengono. Ricominciano. Gli è stato promesso, di padre in figlio, che la morte sarà vinta – benché forse non lo ricordino nemmeno.

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