
«I critici? Potrebbero correggere il tiro se mirassero alla propria testa»
Scrittore e collaboratore per Il Giornale, Massimiliano Parente non uno che le manda a dire. Nella sua ultima fatica – in uscita il 13 marzo per i tipi della Mondadori – non disdegna di puntare il dito contro il panorama culturale del Belpaese, artritico e compiacente verso il già-saputo e il best-seller senza concetti. Tempi.it lo ha intervistato in anteprima.
Il suo nuovo libro, L’inumano, contiene accenti molto critici verso la l’editoria contemporanea.
L’inumano parla dell’essere umano come mai nessuno fino a oggi ha fatto nella letteratura occidentale. C’è anche la critica al demi-monde letterario italiano ma è uno scenario, misero, e spesso anche molto comico, per far risaltare la rivoluzione del romanzo, nel quale la subcultura che prendo di mira è la quella umanistica tout-court, dalla letteratura alla religione. Non mi chieda dei libri-panettoni riferendosi a L’inumano, è come chiedere a Proust la ricetta della madeleine scambiandolo per la Parodi.
La letteratura “popolare”, “di largo consumo”, ha spodestato la letteratura “artistica”?
Io non sono contro la letteratura di largo consumo e a favore della letteratura “artistica”. Anzi, le dirò che c’è più arte in Patricia Cornwell che in Edoardo Nesi, dai cui libri al massimo si potrebbe trarre una docufiction di Santoro. Non è neppure una novità: ai tempi di Proust aveva successo un certo Pierre Hamp perché si preoccupava di temi sociali mentre Proust veniva accusato di scrivere solo di duchesse e per duchesse e pochi si accorsero del terremoto contenuto nella Recherche. Casomai oggi manca l’attrito con la critica.
Qual è il compito della critica oggi?
La critica non esiste più, è stata sostituita dai giornalisti, per i quali i libri sono tutti uguali, delle merendine su cui leggere l’etichetta per sapere di cosa parlano e come scriverne per riempire la recensione. Qualche critico esiste e ogni tanto rispolvera il dibattito sulla critica o quello del romanzo che non c’è più o quello ancora, più recente e ancora più ridicolo, che i veri scrittori sono loro, i critici. Potrebbero correggere il tiro se mirassero alla propria testa una volta per tutte.
Degli scrittori o poeti contemporanei, chi salva?
I poeti oggi non so cosa siano: sono come i filosofi, delle casalinghe nostalgiche. Mi ricordano i pittori di cui pullula ogni provincia. Tuttavia trovo gli scrittori italiani molto provinciali in generale. Hanno scritto opere importanti Alberto Arbasino, ma siamo nel secolo scorso, Aldo Busi, che si è suicidato con le sue stesse mani, e Antonio Moresco, purtroppo non valorizzato come dovrebbe e salvato in extremis dalla Mondadori dopo un lungo calvario editoriale. Scuola di nudo di Water Siti era un grande libro, che mai avrebbe potuto vincere uno Strega come ogni grande libro, e tra i giovani ammiro la solitudine artistica di Isabella Santacroce, e pochi altri.
Si può invertire questa “degenerazione” verso il marketing e tornare a un’editoria di livello?
Gli scrittori devono scrivere e produrre le opere di cui sono capaci e fregarsene di tutto, chi deve restare resterà, e oggi, con tutto questo stare sulla cronaca e sul sociale, è diventato molto più facile capire quali opere resteranno. I testi, quando ci sono, sono più forti dei contesti. Il successo di Auger o Francois Ponsard non è riuscito a oscurare Flaubert, sono spariti loro. Charles Darwin mise in atto la sua rivoluzione in un contesto ancora peggiore ma non è rimasto nessuno dei suoi oppositori, solo le loro caricature giornalistiche fuori tempo massimo.
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