
I Ds sulla via dell’autoevaporazione
L’ambizione non si sposa affatto con la bontà, ma con l’orgoglio, l’astuzia e la crudeltà. Lo diceva Lev Tolstoj, in quel gran bel racconto che è Il regno di Dio è con voi. Se si pensa ai Ds, oggetto accorato di questa riflessione, se ne deve concludere che Tolstoj non è più tra le loro letture. Perché una volta che i Ds nutrivano l’ambizione di essere magna pars di una grande svolta storica come la nascita del Partito democratico, architrave della governabilità riformista per chissà quanti anni a venire, mettendosi alle spalle una volta per tutte ogni residuo dell’eredità postcomunista, certo era il caso di unire all’ambizione tutte le durezze del caso, che in politica sono più che mai necessarie. Al contrario, mese dopo mese, di fronte alle divisioni e alle incertezze della composita maggioranza di governo, i Ds finiscono sempre più per vedersi corrodere le fibre di quel che resta del loro antico spirito d’acciaio in nome di un malinteso senso di responsabilità, che in realtà è puro spleen baudelairiano, incertezza sul futuro, smarrimento del passato.
Una dozzina d’anni fa, quando Tony Blair era appena divenuto leader del Labour e si apprestava a rivoltarlo come un calzino come premessa per il suo lungo trionfale governo, anche i Ds, dal mercato alla politica estera e istituzionale, imboccarono una strada di svolta che appariva decisa. Ricordate, per dirne una, quando contro il primo Berlusconi proposero addirittura la privatizzazione della Rai? Altri tempi. Ora i Ds sembrano aver smarrito la bussola su molti temi decisivi. Sui Dico e il rapporto con la Chiesa si sono autoevirati, dimentichi della lezione di sano pragmatismo togliattiano. Sulla Rai sono divisi tra chi vuole cacciare anche Petruccioli dalla presidenza e chi invece lo difende. Sull’Ici non si capisce se stiano con Rutelli o con Veltroni, che agisce a titolo personale. Sulle tasse sono andati al traino di chi tra loro non ha portato fortuna, visto che il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco è il vero responsabile del tracollo unionista nei sondaggi, avvenuto con la falcidie impositiva dell’ultima Finanziaria. Sulla legge elettorale a metà bocca sono per il referendum, con l’altra metà inseguono il neoproporzionale. Sulle banche ciò che un tempo era l’impero della finanza rossa è stato retrocesso al rango di feudo minore. Nel movimento cooperativo nessuna vera iniziativa di unificazione tra parte rossa e parte bianca, alla ricerca di una massa critica economica e finanziaria destinata a pesare di più nell’intreccio dei poteri del paese. Potrei continuare a lungo ma mi fermo, perché non c’è desiderio polemico. Per molti versi, tutto era già stato scritto quando i Ds hanno rinunciato alla battaglia per mandare al Quirinale il più leader tra loro. Intendo naturalmente Massimo D’Alema, con tutto il rispetto per Giorgio Napolitano.
L’esito, a oggi, è uno scoramento incredibile, proprio nella culla dove tra pochi mesi dovrebbe essere deposto il fantolino del nuovo Pd. E Romano Prodi sembra acquisire tanta più forza quanto maggiore è la debolezza Ds, al punto che può candidare se stesso, al posto loro, ad essere il vero nume eponimo della nuova forza politica. Chissà che l’estate non porti consiglio. L’Italia del futuro aveva bisogno di una grande trasformazione, non dell’autoevaporazione in chiave psicanalitica di quella che è stata una delle sue maggiori forze politiche. Viva Tolstoj.
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