I passi giusti

Di Laura Borselli
10 Gennaio 2008
Il rischio di crescere, la sfida di non scapparein Cina. Enrico Bracalente racconta come ha fatto le scarpe alle difficoltà

«Un paese di poco più di 2 mila abitanti con una quarantina di calzaturifici intorno». Chiedere ad Enrico Bracalente, amministratore unico della NeroGiardini, perché si è messo nel business della scarpa è un po’ come chiedere ad un eschimese perché si è messo a costruire igloo. Si parte dalle risorse disponibili e, nel cuore delle Marche, la sapienza calzaturiera è una materia prima che abbonda tanto quanto la laboriosità. Non per nulla la strada che si arrampica su fino a Monte San Pietrangeli, minuscolo centro in provincia di Ascoli Piceno che ha dato i natali a NeroGiardini, è tutta piena di solettifici e suolifici che presidiano il territorio come baluardi del fortino, venuto su nel dopoguerra quando il distretto fermano-maceratese è diventato quello che è, fino a portare benessere e ricchezza nel territorio. «Sono figlio di contadini e, terminate le scuole medie, sono andato a bottega nelle piccole aziende calzaturiere, che pullulavano in questa zona».
Uno, due, tre anni fino ad imparare il mestiere del tagliatore. L’amore per il lavoro, la soddisfazione d’imparare bene un mestiere, cose bellissime ma che, ad un certo punto, non bastano più, c’è la voglia di rischiare, di provare a fare qualcosa di più. Anzi, a fare qualcosa di “proprio”. «Mio fratello, che ha qualche anno più di me, diceva sempre che dovevamo provare noi fratelli a mettere su qualcosa di nostro, in famiglia. Nel gennaio del ’75, non avevo ancora 18 anni, abbiamo iniziato, dato che io ero esonerato dal servizio militare». L’impresa prende il posto della naja e i fratelli Bracalente insieme ad un altro socio, si mettono giù di buona lena a produrre venti, trenta paia al giorno. Tre soci bastano a tenere il ritmo, finché non arriva un grosso gruppo d’acquisto tedesco a chiedere 15 mila paia. Un’enormità che richiede qualcosa di più della “bottega”. Ed ecco che si inseriscono i primi operai, si struttura maggiormente l’attività. Gli affari vanno bene e nel ’79 c’è uno stabilimento nuovo. «Quando costruimmo il primo capannone non c’era nemmeno la strada in questa nuova zona industriale».
Dire che là dove c’era quel primo traguardo, oggi c’è l’outlet di NeroGiardini, un’azienda che fattura 112 milioni di euro (dati del 2006), sarebbe correre troppo. Bisogna procedere con ordine. Appunto, con ordine. Proprio quello che manca ancora a questa avventura temeraria che sta diventando rapidamente più grande di se stessa. «Nei primi anni Ottanta avevamo 25 dipendenti e producevamo fino a 500 paia al giorno. L’inizio della globalizzazione, fine anni Ottanta, coincideva con un periodo di grossa crisi per noi». I soci si guardano in faccia e capiscono che così non si può andare avanti. Il problema non è neanche il mondo che ti entra in casa o la solita concorrenza cinese, i problemi sono interni ad un’azienda in cui il potenziale di crescita è imbrigliato in strategie inadeguate al salto decisivo.
A questo punto entra in scena lo zio Guido. Anni di esperienza in una multinazionale, come la Unilever, venivano messi al servizio dell’azienda marchigiana dei nipoti. C’è lo zio, c’è anche uno stilista, Silvano Scardavi, che rimarrà in azienda per tanti anni ed un amico consulente che dà una mano a gestire i rapporti con le banche. Si delinea quello che diventerà un punto forte dell’azienda NeroGiardini: manager e consulenti sì, ma “fatti in casa”, cioè tirati su nell’azienda, partecipi di un progetto, professionali nella gestione ma familiari nel senso più caldo e partecipativo del termine, nella passione. Insomma, nessun rampante mercenario in cerca di stellette sul curriculum.
Il periodo nero passa guardando al futuro e pedalando forte nel presente. «Abbiamo iniziato, grazie a mio zio, a creare una struttura commerciale. Il marchio NeroGiardini l’avevamo, lo stilista pure, potevamo dunque lavorare ad un nostro prodotto. Ma la ripresa era lenta e, nel frattempo, per far lavorare gli operai e non mandarli a casa, facevamo conto lavorazione per la Primigi di Perugia che allora aveva la concessione per il marchio Action di Trussardi e per Enrico Coveri». La crisi passa, i risultati tornano ad essere positivi. «Finalmente nel ’93 riuscimmo a vendere tutto con la nostra rete vendita, ma poi arrivarono altri problemi». L’invidia e gli scontri fra i soci.
«Quando ci sono troppi galli a cantare non si fa mai giorno, un po’ come in questo governo», chiosa Bracalente. Lui questa azienda la vuole condurre a modo suo e allora propone ai soci: fatemi fare a modo mio per sei mesi e vediamo come va. Va benissimo. Il vento gira dalla parte giusta e non bisogna perderlo. Nel giro di qualche anno Enrico liquida il fratello ed il socio e resta da solo al comando per fare quello che ha sempre sognato di fare. La rivoluzione. «Ho messo mano a tutto il modello produttivo, ho inserito una rilevazione di tempi e metodi, un sistema di gestione dell’azienda lavorando per magazzino in modo da abbattere i costi fissi. Ho creato un gruppo di aziende che lavora per me, partner, non semplici terzisti. Ho iniziato a lavorare molto sulle economie di scala: per mantenere i prezzi bassi in un settore stagionale, come quello della moda, è fondamentale. I miei partner contano su di me e io permetto loro di lavorare tutto l’anno. Così i prezzi delle nostre calzature restano gli stessi dal ’94».
Economie di scala e risorse umane. Il tagliatore di Monte S. Pietrangeli oggi parla come un manager di alta scuola e non ha dubbi nell’individuare la chiave del successo. Il coraggio di restare in Italia a produrre una scarpa dall’ottimo rapporto qualità prezzo. «Alla fine degli anni Novanta, quando tutti parlavano di delocalizzazione intelligente, io ho fatto la scelta di restare a produrre qui e non tornerei mai indietro. Innanzitutto, perché chi ha creato il mio successo è il territorio e allora è troppo facile svegliarsi una mattina, mandare a casa tutti e andare a produrre in Romania. Diventi un nomade e non è nel mio dna. E poi il “made in Italy” ha un appeal di cui noi stessi non ci rendiamo conto. Il turista che viene in Italia non vuole un prodotto NeroGiardini fatto in Cina, ma una scarpa fatta con la creatività e l’artigianalità della manodopera italiana. Perché qui da noi c’è una cultura del saper fare, del bello, della creatività che altrove non c’è». Un saper fare che tutti ci invidiano e «che noi riusciamo a sminuire come nessun altro. In Italia noi abbiamo un costo di manodopera alto e una busta paga per i nostri dipendenti che è tra le più basse a livello europeo. Questa è la cosa grave. Si facciano un esame di coscienza i nostri politici, i nostri sindacati e gli imprenditori che vanno in tv a dare loro ragione e poi nelle loro aziende pongono in essere atteggiamenti non congrui con quanto sostengono pubblicamente». Una stoccata per un altro imprenditore del distretto fermano-maceratese che frequenta il salotto di Ballarò, perché da queste parti non ci sono pallini nelle suole né peli sulla lingua.

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