
I Poirot di Telekabul
Del giallo c’è tutto: una vittima giovane, brava e bella, un traffico d’armi, una cospirazione retta da qualche potente burattinaio, un sultano, lo scenario esotico dell’Africa con contorno di navi militari, agenti segreti, giornalisti e trafficanti… Manca solo il gran finale che sveli tutto l’intrigo celato dietro l’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del cameraman Miran Hrovatin. Così, mentre il processo che vede imputato Hashi Omar Hassan detto Faudo, presunto autista del commando omicida, entra nelle fasi cruciali (per mercoledì 9 era prevista la testimonianza dell’imprenditore italiano con residenza e affari in Somalia Giancarlo Marocchino, il primo ad arrivare sul luogo del delitto Alpi e di recente gambizzato a Mogadiscio, ma nel momento in cui scriviamo non sappiamo se si sia svolta o se, come già in altre occasioni, sia stata rimandata), le rivelazioni sul mistero non si placano. Qualche settimana fa, l’ex capo della Digos di Udine Antonietta Donadio Motta, sulla base di fonti confidenziali che non aveva voluto svelare, aveva rivelato nientemeno che i nomi dei mandanti dell’omicidio. Colpo di scena, ma non troppo. Si trattava dei soliti “noti” della vicenda (Mohamed Ali Mahdi, già presidente ad interim e signore di Mogadiscio Nord, Giancarlo Marocchino, Moussa Bogor, noto come “il sultano di Bosaso”, Omar Mugne, titolare della compagnia di pescherecci Shifco, Mohamed Sheik Osman, ex ministro delle Finanze somalo e Ciliow, responsabile dei servizi segreti somali, vedi Tempi 17, 6-12 maggio 1999) questa volta riuniti tutti insieme (e un po’ a casaccio), amici e nemici, nella cupola della mafia somala delle armi.
Ora, però, il giallo ha anche un suo testo stampato e rilegato. Benché in cinque anni di indagini non sia riuscito a dimostrare il teorema del misterioso traffico d’armi con alcuna prova reale, Maurizio Torrealta, inviato del Tg3, ha di recente pubblicato un libro (il titolo è esemplificativo: “L’esecuzione”), cofirmato dai genitori di Ilaria Alpi e da Mariangela Gritta Grainer, ex deputato Pds e membro della Commissione parlamentare di inchiesta sulla Cooperazione, che mira, appunto, a dimostrare come la giornalista e il suo operatore siano state vittime di un complotto ordito dai trafficanti di armi per coprire i loro traffici in margine alla guerra somala – se ne deduce, con qualche complicità dei soldati italiani -, traffici di cui la Alpi avrebbe trovato le prove. Una tesi che ai più appare irragionevole e che in più punti pare non stare in piedi. Vediamo perché.
Le mezze verità del sultano…
Tutto comincia, nella suggestiva ricostruzione di Torrealta, da quell’ultima intervista della Alpi a Moussa Bogor, sultano di Bosaso che avrebbe messo la giornalista sulle tracce del traffico internazionale e l’avrebbe, di fatto, condannata a morte. La parte dell’intervista registrata non rivela alcunché se non che il sultano si diverte a eludere, alludendo a chissà quali misteri, le domande al punto da costringere più volte il cameraman a interrompere le riprese. Le rivelazioni scottanti, caso mai, avvennero, quindi, a telecamere spente. Già qui, in realtà, la ricostruzione non tiene: chi avrebbe potuto sapere dell’intervista della Alpi e desiderarne la morte prima che potesse diffondere le informazioni? Solo il sultano. E perché il sultano avrebbe vuotato il sacco con la Alpi per poi esser costretto a ucciderla? E se tali informazioni fossero sfuggite per errore al sultano, perché l’omicida dopo la Alpi non si è preoccupato di eliminare anche il sultano chiacchierone? Tutto ciò non si spiega. Comunque Torrealta torna sui passi della Alpi e intervista a sua volta il sultano. Il giornalista cerca in tutti i modi di fargli rivelare particolari certi del presunto traffico di armi. Il sultano a tratti sta al gioco (“Queste sono notizie che ho ricevuto da gente comune…”, “una volta un uomo comune ci offriva di venderci dell’equipaggiamento militare e fornircelo con le nostre stesse navi da pesca (…), ma noi abbiamo creduto che fosse un truffatore…”), a tratti riprende a rispondere con quel suo caratteristico tono levantino, sempre senza dir niente di certo e anzi escludendo che l’omicidio Alpi potesse essere collegato al traffico di armi e lo stesso Torrealta è costretto a titolare il relativo capitolo del libro “le mezze verità del sultano”.
E quelle intere del pirata L’intervista risale al settembre-ottobre 1994. Nell’agosto1995 il sultano scrive alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Cooperazione (documento 1) per chiedere di essere ascoltato e porre così fine alle “speculazioni giornalistiche che tendono tutte ad assegnarmi ad ogni costo un qualche ruolo nelle circostanze che hanno condotto all’uccisione dei giornalisti italiani” estrapolando brani di sue interviste “in modo che suonassero nella misura del possibile un’accusa nei confronti di qualcuno, in particolare della compagnia armatrice somala Shifco”.
Il 10 dicembre del 1995 il sultano manda un comunicato stampa all’Ansa (documento 2) per smentire tutte le dichiarazioni rilasciate sul presunto traffico di armi compiuto dalla Shifco rilasciate da un tal “Gioaar” intervistato sempre da Torrealta. “Queste dichiarazioni di “Gioaar” – scrive il sultano chiamando in causa l’inviato del Tg3 – sono semplicemente montature e meccanizzazioni (macchinazioni, ndr) create dal giornalista Torrealta usando un pirata (Gioaar faceva parte della banda che avevano assaltato la nave della Shifco “Faarax Oomar”, ndr) per diffamare la società Shifco e i suoi dirigenti”. “Questo atto non è nuovo – conclude il sultano – in quanto da oltre un anno il giornalista sopracitato sta speculando sui Mass Media e stampa italiana tendente ad assegnarmi un ruolo nelle circostanze dell’uccisione di Ilaria Alpi, per colpire persone innocenti, facendo mostrare interviste speculativamente montate e falsificate”.
Se tu dai uno scoop a me, io poi do…
Dopo l’intervista al sultano il libro racconta di un interrogatorio, sempre a Bogor condotto dal procuratore Giuseppe Pititto che al tempo conduceva l’inchiesta e organizzato a Sana’a, nello Yemen, nella prima settimana di giugno del ’96. Bogor parla dei suoi rapporti con Mugne, delle sue interviste, attenua, accentua e cambia versioni più volte senza mai dare notizie certe sul famoso traffico d’armi. Al termine dell’interrogatorio il sultano consegna una lettera riservata al magistrato e dichiara di essere a disposizione. La lettera (documento 3) – della quale è, quindi, ancora in possesso il dottor Pititto – cerca di spiegare il contesto di sospetto e sfiducia in cui maturarono le sue famose interviste, ammettendo quindi la loro inattendibilità e conclude: “Il collegare la morte della giornalista Alpi avvenuta in Mogadiscio con prove ricavabili dalla intervista rilasciata al Tg3 è nella migliore delle ipotesi un preciso disegno di depistare l’indagine sulla morte della giornalista e del suo collega”. Poi sulla necessità di portare a termine le indagini: “Ciò risponde anche al nocciolo di una conversazione che ho avuto con lo stesso Torrealta in cui affermò tra l’altro che molti giornalisti sono stati uccisi e che essendo continuamente soggetti a rischi imprevedibili debbono cominciare a difendersi a vicenda ricorrendo a qualsiasi stratagemma che gli assicuri il loro obiettivo. L’attaccamento del giornalista ad una rapida conclusione del caso Alpi si ricollega a questa visione. Infatti, il giornalista in questione in una altra conversazione si è spinto addirittura a chiedermi una collaborazione conducibile alla colpevolezza della Shifco in cambio di favori non ben precisati, ignorando, oltre alla mia formazione giuridica, tutto ciò che rappresento per la Somalia”. Torrealta, quindi, avrebbe offerto “favori non ben precisati” in cambio di una dichiarazione di colpevolezza della Shifco. Ma il sultano non è l’unico che rivolge al giornalista simili accuse. In un altro passo de libro (pag. 59) si riportano le parole raccolte da un altro presunto testimone del traffico di armi, un marinaio di Silvi Marina un tempo imbarcato sulle navi della Shifco, Biagio D’Aloisi “il quale – è spiegato – si è stabilito a Frascati dove dice di fare il pittore”. Anche in questo caso la testimonianza non testimonia un gran che: “Una volta veniva una nave, poi ne veniva un’altra, ci mettevano tanto tempo da Formia a Mogadiscio, una nave, lenta che sia, ci puo mettere 12 giorni, 13 giorni… Poi i trasbordi non si facevano mai nel porto di Mogadiscio ma a Kisimayo, alla fonda, con una nave al centro, in questo caso la frigorifera, greca che dir si voglia, e ai due lati le nostre navi, i pescherecci della Somitfish, affiancate… Quando sono tornato giù a Mogadiscio con il beneplacito del cantiere, con una lettera intestata, c’erano dei militari senza gradi: arrivavano con delle camionette, erano militari, si vedeva dalla divisa e dagli scarponi, dormivano al Juba Hotel e mangiavano assieme a noi. Dopo un poco si entra in confidenza, e un maresciallo mi ha raccontato che erano della ‘Folgore’ e stavano addestrando i somali a sparare… Pensavo che non era una cosa chiara, e queste armi da qualche parte erano entrate, ma da quali vie?”. Dunque, la conferma da parte di un ex marinaio del traffico d’armi? E, per sovrappiù, organizzato non all’insaputa dell’esercito italiano vista la presenza di uomini della Folgore? Prontamente da Roseto degli Abruzzi D’Aloisi rilascia la seguente dichiarazione (documento 4, di cui Tempi ha copia autografa): “Non ho mai affermato di aver visto a bordo delle navi armi di nessun genere ed aggiungo che il suddetto giornalista ha cercato in tutti i modi di convincermi ad asserire quello che faceva comodo a lui, spingendosi al punto di offrirmi una grossa ricompensa se avessi reso dichiarazioni conformi ai suoi desideri. Per cui tutto ciò che risulta difforme dalla presente è frutto della malafede dello stesso giornalista”.
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