
Il The Artist delle sette note ha la voce di Mc Cartney e di Massimo Ranieri
Non è passata indenne da approfondimenti sociologici, filosofici e filologici la vittoria a piene mani agli Oscar del cinema, del film francese, muto e in bianco e nero, “The Artist”. Vittoria peraltro prevedibile e prevista, che documenta un’ansia di recupero di semplicità e “purezza” artistica nel racconto delle storie per il grande schermo. Operazione che suscita un dilemma: per vivere il presente, bisogna capire il passato? E fin dove la nostalgia può essere un atteggiamento propositivo e non puramente “reazionario”? Quello che vale per l’opera cinematografica vale anche per la musica?
Esempio lampante è il nuovo disco di Paul Mc Cartney, “Kisses on the bottom”, un lavoro di recupero di standard dello swing degli anni ’30 – ’40, esplicitamente considerato dall’ex beatle come un “The Artist” delle sette note. Ma c’è chi sospetta che l’eccessivo impegno in operazioni “retromaniache” nasconda una crisi creativa, forse, fisiologica, dopo quasi un secolo dalla nascita della musica “popular”, quella delle canzonette della durata di pochi minuti, nata dall’incrocio delle tradizioni più antiche (lo spiritual per gli afro-americani, la giga e il troubador per l’Europa nordica, la sinfonia e la romanza lirica per i Paesi mediterranei).
Ecco, secondo il lessico musicale, potremmo dire che “The Artist” è una sorta di compilation, un recupero con tecniche più moderne di una magia e una poetica, perse nel tempo, ma ancora attuabili. E questo vale sia per l’arte cinematografica, che per quella musicale. E allora, un po’ alla rinfusa, ecco qualche titolo, oltre naturalmente al già citato Paul Mc Cartney, che espressamente colga dall’immenso catalogo dei traditional e, magari, possa essere candidato per un ipotetico Oscar di categoria. Cominciamo con i Blind boys of Alabama, un gruppo vocale di afro americani, dalla lunga carriera, ripescati dopo un periodo d’oblio, agli inizi degli anni 2000, da Peter Gabriel e poi coinvolti in un paio di progetti da Ben Harper. Per l’etichetta di Gabriel, i Blind Boys nel 2001, pubblicano “Spirit of the Century”. Raccolta di gospel e di brani soul e rhythm’n blues, cantati con passione e forza, con voci grezze e “maleducate”. Non è certamente un prodotto levigato, ma è un ritorno all’essenziale. Una serie di brani che puntano direttamente al cuore e alle atmosfere del profondo Sud, nel delta del Mississippi.
Da quelle parti arriva un altro splendido lavoro, datato 2010, si tratta di “Downtown Church”, dove la folk singer Patty Griffin sciorina una serie di brani pescati dalla tradizione di New Orleans, di Memphis, e dalle strade messicane, grazie ad un gruppo affiatato di brillanti musicisti. Proto rock’n roll, ballate country, spiritual e gospel, per finire addirittura con il canto liturgico dell’Alleluja; il tutto realizzato nella splendida acustica di una chiesa, nella città bassa di New Orleans, proprio come recita il titolo.
Quando si parla di cover di brani storicamente contemporanei alle vicende raccontate in “The Artist”, non si può dimenticare la “Seeger Session” di Bruce Springsteen. La riproposta del catalogo di un’icona del traditional americano Pete Seeger, oggi ultranovantenne, ancora in attività, sempre in bilico tra la citazione della Sacre Scritture e la canzone protestataria e politica sulle condizioni del lavoro di immigrati e “colored” agli inizi del ‘900. Grande ensemble di ottoni, fiati e sax, suono scintillante, un po’ “blues brothers”. Pubblicato sia in versione da studio, che in quella live, entrambe splendide. Si intitola semplicemente “Covers”, datato 2008, e rimane l’ultimo cd, in ordine di tempo, licenziato da James Taylor, che dà il meglio di sé in brani come “Hound dog”, “Summertime blues”, “Not fade away”, un “American songbook”, debitamente rivestito e tirato a lucido da una scattante rock band.
E per finire, qualche lavoro di casa nostra, in cui si riconosca un progetto che si ricolleghi allo spirito di “The Artist”. Forse vi meraviglierete se consigliamo vivamente una trilogia di musica napoletana: “Napoli ed io”, dalla tradizione ottocentesca, alla prima metà del ‘900, ottimamente interpretata da Massimo Ranieri, sotto la sapiente regia di Mauro Pagani. Atmosfere e strumenti in viaggio nel Mediterraneo dal Golfo di Napoli alle coste nordafricane.
Una vera sorpresa, come l’ultimo disco dei Pooh, se pur di altro genere, nella storica formazione “a quattro”. “Beat Regeneration”, così si intitola la raccolta, è una esaltante playlist composta dai grandi successi dei complessi italiani a cavallo degli anni ’60 e ’70. Un omaggio a quei gruppi, nati insieme ai Pooh, ma con una parabola discografica molto più breve. Un’ottima prova di Facchinetti & c.
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