Il calvario di Sonia

Di Fabio Cavallari
03 Aprile 2003
In seguito alla pubblicazione dell’articolo “La storia di Mimmo” (Tempi n.10), una lettrice della versione on-line ha voluto portare la testimonianza di una vicenda altrettanto significativa.

In seguito alla pubblicazione dell’articolo “La storia di Mimmo” (Tempi n.10), una lettrice della versione on-line ha voluto, tramite una lettera in redazione, portare la testimonianza di una vicenda altrettanto significativa. Questa settimana concedo lo spazio della mia rubrica alle parole di Elena. «Di fronte all’urlo d’aiuto e di rabbia lanciato da un disabile, argomenti consolatori non possono sussistere. Quando ascolto in Tv interminabili discussioni incentrate su argomenti futili e distanti dai problemi reali, mi accorgo di quanto possiamo essere stupidi. Proprio in questi giorni Sonia mi ha raccontato la sua storia. Trentotto anni (portati benissimo), quattro anni fa ha contratto una malattia abbastanza rara. Per farvi capire è una sorta distrofia muscolare, che le sta atrofizzando il cervelletto, impedendole così di muoversi liberamente. Ogni giorno peggiora di più. In questi giorni mi ha raccontato, con una luce stupenda negli occhi, di quando faceva gare di sollevamento pesi ed ora, dice sorridendo, “non riesco neppure a portare una tazzina da caffè”. Lo Stato gli ha riconosciuto il 48% d’invalidità, inserendo anche lei come Mimmo nella “categoria protetta”. Le hanno consigliato di chiedere la pensione d’invalidità, ma lei vuole lavorare. “Se chiedo la pensione” – mi dice – “non potrò più lavorare e con i quattro soldi che mi daranno, la mia esistenza non potrà che peggiorare”. Dopo averle letto l’articolo “La storia di Mimmo”, Sonia mi ha detto che fino a quando sarà in vita vorrà vivere la vita sino in fondo, senza barriere e che se la sua malattia è dura, lei lo è ancora di più. Quando è andata a fare la visita medica per farsi assegnare il grado d’invalidità, le hanno consigliato di presentarsi poco truccata, visibilmente malmessa, insomma se voleva ottenere il 100% sarebbe stato meglio che apparisse agli occhi dei medici come un relitto umano. Sonia con un sorriso amaro mi dice: “Io ho una dignità, sono una persona ammalata ma non in cerca di pietismo gratuito”. Tutti noi dovremmo impegnarci affinché questa dignità diventi pane quotidiano. Elena D., Prato».

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