
Il caso Cecchettin e la necessità di educare alla sofferenza

Siamo tutti sbalorditi dall’ondata di femminicidi, di violenza sulle donne che i media ci raccontano senza evitare alcun particolare. Non potremmo che esserlo. Ed ogni uomo in quanto tale non può che sentirsi indagato antropologicamente. Eppure, non voglio essere cinico, ma nulla di quanto è stato espresso per cercare di limitare questo fenomeno mi convince. Né l’aumento delle pene, come se il deterrente fondasse le sue basi su una violenza razionale, ma neppure l’educazione sentimentale, o come si vuole chiamare, nelle scuole. Per carità, credo che ognuno proponga onestamente e con sincerità ciò che gli sembra più adatto per affrontare questo dramma. Eppure, rimane qualcosa di insoluto.
Non ho la pretesa di aver trovato la chiave di lettura, ma credo che almeno due punti andrebbero approfonditi e inseriti nel dibattito assieme a tutte le altre riflessioni.
Il primo è molto semplice e riguarda il rispetto degli altri. E a scaso di equivoci su questo punto, il ruolo cruciale è quello della famiglia. Il rispetto dell’alterità dell’altro, che io non posso mai afferrare sino in fondo. Siamo tutti uomini, in senso generale, ma l’irriducibile unicità di ognuno ci può rendere incomprensibile chi ci è vicino. Ciò che è necessario educare è la capacità di stare di fronte all’altro anche quando quest’ultimo si presenta come inconciliabile, differente, con un alfabeto appartenente ad un altro linguaggio. Il rispetto dell’altro non è altro che il rispetto del sacro, di ciò che non posso violare a mio piacimento, che non posso taglieggiare, manipolare, fare mio.
La sofferenza fa parte della vita
L’altro elemento ancora più delicato riguarda la sofferenza. Questa società liquida, postmoderna, ipertecnologica e digitale, ha espulso il senso del dolore. Tutti noi siamo destinati nella nostra vita a provare le gioie più grandi, le felicità più estreme (e per ognuno sarà differente) ma anche la sofferenza. Essa fa parte della vita. Può essere atroce, può atrofizzare, palesarsi come definitiva. E non parlo solo della malattia, ma dei nostri morti, dei lutti, degli errori e proprio degli abbandoni che generano i femminicidi.
La sofferenza è uno dei punti che non può essere ignorato. Nessuno può condividere la sofferenza di un altro. Quando essa si palesa, l’essere umano ha l’impressione di essere solo. Solo al mondo. La drammaticità di questa sensazione è spaventosa. L’altro potrà solo condividere la domanda che alberga in questo dolore, ma non potrà sostituirsi, non potrà placarlo, non potrà anestetizzarlo. Potrà essere compagno d’avventura, ponendosi a lato, con rispettosa deferenza anche quando non sarà in grado di capire.
La violenza come risposta
Ma ciò che è fondamentale comprendere è che la sofferenza è parte della nostra vita. Può travolgerci, può diventare talmente visibile da deformare completamente l’ordine dei nostri pensieri, di quello che siamo abituati a fare quotidianamente. Alla sofferenza, questi uomini, deboli con tutta evidenza, rispondono con l’unica arma darwiniana che conoscono: la violenza. L’incapacità di accogliere la propria sofferenza dell’anima, in grado anche di scarnificare i corpi, produce la disumanizzazione del prossimo.
Espellere il dolore, perché nelle società edoniste esso rappresenta un elemento di scarto, è stato un errore tragico. Educare alla sofferenza, all’abbandono, alla perdita, anche alla demolizione del proprio ego, sono processi educativi che nella società della “prestazione” non vengono più presi in considerazione.
Se tutto è possesso
Mi appare opinabile l’idea che anche il patriarcato sia radicato nel mondo dei giovani, trovo molto più sensato dire che l’estromissione della sofferenza come atto di debolezza da occultare e nascondere, perché non in linea con i processi moderni, abbia più coerenza con quello che stiamo vivendo.
So benissimo che ci sono molti altri punti da indagare: il senso stesso della parola “amore” e la sua declinazione rivolta agli altri, l’aggettivo possessivo “mia” o “mio” che “cosifica” l’essere umano alla stregua di un oggetto che si può fagocitare, la fragilità che ci contraddistingue in quanto essere viventi. Per affrontare un tema così radicalmente complesso, sono necessarie voci che sappiano indagare l’animo umano. Le manifestazioni contro i femminicidi, per quanto emotivamente comprensibili, sono stratagemmi per ricomporre una comunità che non esiste, ma di cui siamo amaramente vedovi.
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