
Il cinema alle Cannes
Il festival di Cannes numero 52, che si è aperto stancamente il 12 maggio, rischia di essere ricordato come un’edizione in tono minore. Tanti autori soprattutto europei (di quelli che poi il pubblico snobba) e un paio di visionari del cinema sopravvalutati da sempre, come Peter Greenaway (uno che da anni si diletta a dire che il cinema è morto) o che si sono persi strada facendo nel narcisismo del loro talento, come David Lynch o Jim Jarmusch. E con una giuria presieduta da un altro “personaggio” come David Cronenberg c’è da temere. Temere cosa? Che la realtà venga bandita da quello che rimane il festival più importante d’Europa e anzi del mondo (anche perché in America i festival li fanno solo gli indipendenti, che hanno bisogno di promuoversi). Le prime giornate, non a caso, hanno fatto registrare pochi grandi sguardi sul reale e sull’umano e molte rappresentazioni ideologiche, come il veterofemminismo di Pedro Almodovar. Poi ci si mettono anche i media, e così, di anno in anno, passa sempre più in secondo piano il cinema e le storie che racconta a vantaggio di stelle e stelline di passaggio (anche a sproposito, come Valeria Marini che ha ritenuto di dover festeggiare il compleanno sulla Croisette), in attesa della solita, ormai noiosa, esibizione delle pornodive in cerca di qualche secondo di notorietà sulla spiaggia. Anche gli spazi specifici che tv e giornali “concedono” all’evento non migliorano la situazione: lo sforzo non è più quello di vagliare ciò che passa il convento e trattenere il valore (cinematografico), ma la ricerca del grande Tema, possibilmente pruriginoso, da offrire in pasto al volgo. E, certo, è il cinema stesso che dà una mano, se nelle ultime edizioni si sono moltiplicate le pellicole a base di stupri, pedofilia, violenze familiari e incesti (la moda di quest’anno), per film che sembrano concepiti a tavolino per creare scandalo e non per assolvere a una funzione di autentica comunicazione culturale. Ma forse non è un caso che tanto cinema – non tutto per fortuna – si sia incanalato in una paura della realtà, di cui è figlia per esempio la diffusa certezza di registi e sceneggiatori che tutte le storie possibili sono già state raccontate; non rimarrebbe, quindi, che dedicarsi alle innumerevoli variazioni sul tema. Pensiero debole? Truffa ai danni dello spettatore, che in questi casi si trova a (ri)vedere sempre la stessa aria fritta? Al pubblico, chiamato a scegliere tra le due “vie” del cinema contemporaneo, la risposta. Da parte nostra, vi sottoponiamo all’attenzione un film, presentato a Cannes, che diventerà anche in Italia tra pochi giorni l’ennesimo caso da dibattito: “Ed Tv”, di Ron Howard (vent’anni fa era il Richie Cunningham di “Happy Days”). La storia è molto simile al celebre, e recente, “The Truman Show”: un uomo è il protagonista di un programma che trasmette 24 ore su 24 la sua vita. La differenza con Truman, è che stavolta il personaggio-cavia lo sa, e ne è pure contento (intuibili la grande popolarità e i successi con le donne). Anche “Ed Tv” inquieta per le angoscianti implicazioni di una tale esasperazione dello strapotere dei media, ed è in un certo senso – nel suo lieto fine un po’ stucchevole – una difesa della realtà. E però, nel confronto inevitabile con il film che lo ha preceduto sullo stesso terreno, lascia l’amaro in bocca perché si limita a rappresentare l’ottusa invadenza mediatica e la becera teledipendenza generale. Giocando invece sul piano rischioso della metafora, “Truman Show” diventava paradossalmente più realistico, perché giungeva a toccare il cuore della ricerca dell’uomo di felicità e di libertà. Morale: il cinema, che per sua natura è finzione e non verità, si esprime al meglio quando diventa metafora della realtà, piuttosto che se tenta di riprodurre senza estro la realtà stessa.
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