
Terra di nessuno
Il conflitto della primavera
Articolo tratto dal numero di Tempi di marzo 2019
Milano, 27 febbraio – La signora A. uscì di casa alle otto del mattino trascinandosi dietro il suo fedele cane. L’asfalto grigio davanti al portone era coperto di coriandoli coloratissimi, una costellazione di coriandoli lanciata evidentemente da un bambino che andava a scuola. Nello stesso momento A. percepì sul viso l’aria di quella mattina di febbraio: di colpo tiepida, una inaspettata carezza. È già ora?, si chiese, stretta nel suo cappotto pesante. Sì, si rispose, arresa all’evidenza: era di nuovo, inesorabilmente, primavera.
Una di quelle giornate in cui anche a Milano la luce è così forte e chiara che non puoi non esserne meravigliato, dopo il pallore esausto del sole invernale. Una di quelle giornate in cui, a quindici anni o sedici, A. andando a scuola veniva presa come da un’ebbrezza, un vapore di dolce ubriacatura. In classe all’intervallo qualcuno spalancava una finestra, e ne entrava un fiotto di aria nuova. Se poi era uno di quei giorni, e negli anni Settanta erano tanti, in cui un qualche sciopero studentesco sbarrava il portone del liceo, ben contenti si sciamava per le vie di Brera, chiassosi, le giacche sbottonate, dentro a quel sole fresco, che abbagliava.
Il primo sole di primavera, rifletté A. mentre il cane nelle aiuole annusava entusiasta l’erba chiara, in quelle mattine lontane la spingeva come una barca, quando il vento a favore gonfia le vele. Il sole di marzo e lei adolescente andavano, allora, nella stessa direzione. La vita era intonsa, tutta da cominciare; ogni volto, ogni strada poteva essere un inizio. Tutto era in fieri, nei liceali bighellonanti per Brera, e tutto desiderio, e attesa. Le gemme che sui rami ancora spogli premevano per aprirsi erano loro affini. Di ciò che era stato, del passato sapevano poco, qualche pagina dei libri di storia. Ma cosa importava, giacché il presente colmava le loro mani, e il futuro li incalzava con la sua promessa. Si tornava a casa giusto per pranzo, e subito in fretta fuori di nuovo, dentro la giovane aria di marzo.
Ora, si disse A. camminando, la primavera e lei andavano in direzioni opposte. Misurava quanto grande era la casa, ora che i figli cresciuti non c’erano mai; e quel vuoto che le cresceva attorno la spaventava. Quarant’anni di vita si erano di colpo rattrappiti come in una pellicola danneggiata, e solo le restava, come fosse stato appena ieri, la memoria dell’adolescenza. Così concreta che a volte a A. pareva di stare sognando, e che si sarebbe svegliata davanti al liceo, coi libri sottobraccio e, addosso, i jeans a zampa d’elefante.
La vita ha la velocità di un sogno, si diceva incredula, fissando in una vetrina quella estranea con i capelli ingrigiti: passiamo come nuvole in cielo, ma solo da vecchi lo capiamo. Quando tutto fuori e dentro sembra farsi cenere c’è chi si illude, chi si tiene in forma e veste come un ragazzo, e chi si consegna lealmente alla vecchiaia. Eccomi, vorrebbe dire ora A. a Dio, sono un mucchio di ricordi in frantumi, e di macerie: fanne quello che vuoi. Questo mettersi, inermi, nelle mani di un altro confligge, però, con la propulsione fremente della primavera, come un andare controvento. È un lento farsi terra, e insieme canto sommesso: quasi muto, in una diversa, indicibile speranza.
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