
Terra di nessuno
Il dubbio del nulla. E un angolo del mondo di Dio
Articolo tratto dalla rubrica “Terra di nessuno” di Marina Corradi, contenuta nel numero di settembre 2019 di Tempi.
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Il tramonto di una giornata di colma, bollente estate fra le colline in Monferrato. I filari di viti già carichi di piccoli grappoli acerbi, l’ombra che va allargandosi attorno alle mura delle rare cascine.
Dai cancelli si sporgono rose porpora, ubriache di sole. Per le stradine che scendono e salgono dolcemente non c’è nessuno. Ci dobbiamo essere persi, ma non ce ne dispiace, tanto dolce è questo orizzonte di canneti, campi di girasole d’oro e piccoli campanili svettanti dalla sommità dei paesi. Mio marito guida adagio, senza fretta di ritrovare la strada conosciuta. Dai finestrini abbassati entra un inesausto frinire di grilli, e il profumo del fieno. Una splendida serata.
Mentre a ovest il cielo s’incendia nel calare del sole, verso nord si allungano lunghe lingue di nubi sottili e scure, come dita della notte. Procediamo in quella direzione e io le osservo farsi più grosse e consistenti, come mani che agguantino l’orizzonte.
Adesso è l’ora estrema dell’imbrunire, quando i limiti di cielo e terra svaniscono, e non si distinguono più i campi degli uomini dalla volta ancora senza stelle. È l’ora in cui terra e cielo si confondono nella notte. Vengo sfiorata da una malinconia antica, come un umano connaturale ritrarmi davanti all’oscurità. E mentre sono assorta in questo sguardo, e zitta, prorompe improvviso un pensiero tagliente come una lama. Come se mi venisse sussurrato: «Vedi, è stato tutto solo un sogno. Ti sei sognata la tua vita, l’infanzia, la giovinezza, l’amore, i viaggi, il marito, i figli che avete avuto. Hai costruito tutto tu, nella tua testa. Pura immaginazione. Fuori, come in questa notte che si alza e cancella ogni cosa, in realtà non c’è nessuno».
Insostenibile idea, che non riesco nemmeno a pronunciare. Sento un’incrinatura nel petto, come il graffio profondo di un animale selvatico, che poi subito sia fuggito. Che folle pensiero, nell’aura di uno splendido imbrunire estivo. Ma è come un veleno da cui non so difendermi. Gira nel sangue e si fa vero. Ti sei sognata tutto, la vita, gli amici, i bambini – soprattutto, i bambini. Fuori, in realtà non c’è nessuno.
Risale alla memoria, remoto eppure come fosse ieri, un istante molto simile. Avevo 13 anni e stavo andando a scuola, camminavo per via Moscova a Milano. Passando davanti al San Francesco di marmo della fontana di piazza Sant’Angelo, di colpo la stessa improvvisa trafittura: non c’è nessuna città attorno, nessuna scuola, nessuna lezione che ti aspetta. Stai immaginando tutto tu, nella tua testa. Sei perfettamente sola. Fuori, non c’è nessuno.
Ero arrivata a scuola poi quasi di corsa, desiderando le facce delle mie compagne, ansiosa di sciogliere nelle loro voci quell’angoscia. Ma questa sera è peggio – questa sera, che sono quasi vecchia. E se fosse vero? È malattia o cos’è, il pensiero affilato come un coltello che mi annichilisce? Sembrerebbe la voce di un nemico, che insinui il dubbio del nulla – di tutti, il più intollerabile.
«Cerchiamo un bar», dico a fatica a mio marito, e finalmente troviamo un tabacchi con la tv accesa, e gli avventori che giocano a carte. Luce, tintinnio di bottiglie, voci, risate. Mi siedo e chiedo un calice di vino. Rosso. Il vino denso mi fa subito bene, sblocca il grumo di paura nel sangue. Che dono, il vino, penso allora, io che quasi non bevo. Dio sapeva che in certi momenti il cuore degli uomini ne ha bisogno.
Attorno a me le parole in dialetto si alzano, dalla tv il tg e spot, mentre rotola una cascata di monete in una slot machine. Sopra la cassa sorride un’immagine di Padre Pio. E tutto è di nuovo così familiare e reale: Italia, un piccolo paese, un angolo del mondo di Dio. Quel livido straniero, sbugiardato. In auto, nella notte fonda, sentendo ancora un bruciore nel petto, un grazie che è una preghiera.
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