Il gesto al quale siamo chiamati

Settantatré anni fa l’esecuzione di Von Stauffenberg, assassino mancato di Hitler. Non si trattava solo di «far sapere al mondo che c’erano dei tedeschi buoni»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Gli angeli sopra Berlino si sono dati convegno nella Bendlerstrasse: affacciati al cortile del ministero della Guerra del Reich attendono un destinato al cielo di Marte. È da poco passata la mezzanotte del 21 luglio 1944: il colonnello della Wehrmacht Claus von Stauffenberg attende l’ordine della sua esecuzione. È un giovane ufficiale di educazione cattolica, appartenente a un’antica e nobile famiglia sveva. In Nord Africa ha perduto un occhio, la mano destra e due dita della sinistra, a Berlino aveva l’incarico di capo di Stato maggiore dell’Esercito territoriale. È il leader della congiura per eliminare Adolf Hitler e rovesciare il suo regime: è stato lui ad aver piazzato a Rastenburg, nel quartier generale del tiranno, la bomba che avrebbe dovuto ucciderlo. Assistito da una provvidenza maligna, il Führer è uscito invece illeso dall’attentato. In poche ore l’Operazione Valchiria è soffocata.

Arresti sono in corso in tutta la Germania e Stauffenberg è già nelle mani dei suoi aguzzini. In poche ore viene condannato a morte, la sua vita contro il muro d’un cortile. L’ordine di puntare le armi sul condannato fende il silenzio della Bendlerstrasse, ma, prima che parta il fuoco, Stauffenberg lancia un grido possente che risuona nel cortile e penetra nell’etere per restarvi: «Es lebe das geheime Deutschland!» («Lunga vita alla Germania segreta!»). È l’ultimo atto prima d’essere investito dal piombo e dal buio.

Poi però subito viene il luminoso riavvolgersi della trama d’un destino, e come in un sogno lucido la memoria d’essere tutto in tutti e contemporaneamente d’essere però un altro. E così vedersi diciottenne nel maggio del ’24, insieme ai fratelli Berthold e Alexander e una pattuglia di amici biancovestiti, passeggiare lungo il Reno nella campagna di Heidelberg, e risentire ancora la primavera che a vent’anni entra nel cuore prima che nei polmoni. E rivederlo, l’uomo anziano che sussurra parole levigate e aeree, ieratico, il mito vivente della giovane Germania: Stefan George. E sentire quel padre ora come un fratello e le idee nelle sue parole entità viventi: la necessità di un’aristocrazia spirituale, il regno della cultura e dello spirito contro l’orrenda barbarie che proprio in quel 1924 sta concependo Adolf Hitler, “il Principe dei Parassiti”, nel suo Mein Kampf.

L’ultimo inno del maestro
E poi l’ottobre del ’28, i nazisti già lanciati alla conquista del potere e George che convoca i suoi amici. Claus da due anni è ufficiale dell’esercito, ma ha preso una licenza per ascoltare il maestro. Dopo un lungo silenzio carico d’attesa, George legge il suo ultimo inno. Il titolo è Geheimes Deutschland (Germania segreta): «Nelle soffocanti celle di cose orrende – recita un suo verso – la pazzia ha appena trovato quello che domani avvelenerà tutti gli orizzonti». È una profezia: lo spirito riconosce all’opera il demonio.

Nel 1931 il nazismo è sempre più in procinto di pervertire il cuore della Germania. George non lo sopporta: si esilia volontariamente a Minusio, in Svizzera. Vuole sottrarsi alle spire della propaganda hitlerita che intende usare la sua opera. Quando il nazismo va al potere gli offre un’accademia poetica, lui rifiuta orripilato. Il vero omaggio gli viene tributato da Edith Landmann che scrive un appello agli ebrei tedeschi della Germania segreta, invitandoli all’esodo e a costruire all’estero comunità ideali basate sul pensiero di George in nome della luce e della Tradizione.
Nell’autunno del ’33 il poeta raduna di nuovo i suoi discepoli a Minusio, confidando loro il timore che dopo la sua morte i nazisti possano strumentalizzare il suo funerale. Chiede ai fratelli Stauffenberg d’impedirlo. George muore il mattino del 4 dicembre; dopo aver vegliato il suo corpo cinto d’alloro, i giovani della Germania segreta ingannano i nazisti, celebrando il funerale del poeta il giorno successivo, a un’ora diversa da quella comunicata.

La giovinezza dell’anima
«Solo uno di noi può compiere il gesto di forza al quale siamo chiamati, quando regna il caos», aveva scritto George ne I templari. Non si doveva solo «far sapere al mondo che c’erano dei tedeschi buoni in Germania», come aveva scritto Claus alla moglie Nina e ai suoi figli, tutti atrocemente perseguitati dai nazisti dopo la sua morte. Occorreva prendere in mano la spada e sulle spalle la croce dei peccati tedeschi, per redimere il sabba nazista col proprio sangue, per riscattare dal baratro gli imperatori Hohenstaufen e l’Alto Medioevo, Goethe e Schiller, le fiabe dei fratelli Grimm, Hölderlin e Novalis e la speranza che s’accese insieme ai fuochi delle notti di Bremgarten, quando migliaia di ragazzi, 13 anni prima di Hitler, percorsero in festa la Germania rievocando l’atmosfera del Romanticismo in cammino verso le mete di una geografia dell’anima: il mare lunare di Famagosta o l’isola delle Farfalle al di là di Zipangu, la Wartburg teatro delle tenzoni fra i Minnesänger o l’Estremadura di Don Chisciotte…

L’Oriente di questi giovani, scriverà Hermann Hesse, «non era soltanto il Paese di Levante, un’entità geografica, era la patria e la giovinezza dell’anima, era il dappertutto e l’In-Nessun luogo, l’unificazione di tutti i tempi». Di notti come queste, colme di vivente immaginazione, s’era alimentata la resistenza al nazismo. Nel cielo sopra Berlino Claus von Stauffenberg, assieme allo stormo d’angeli in attesa, tutto questo ritrovò e di più ancora: l’Entità vivente del suo e di ogni sacrificio, consumato perché nemmeno nell’abisso si spegnesse il sogno di una generazione, la luce della Germania segreta.

Foto Ansa

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