Il Grande Antipatico
Raccontano che quando (correvano gli inizi del 1995) Giulio Tremonti dovette lasciare i suoi uffici al ministero delle Finanze per far posto al suo successore, l’accademico romano Augusto Fantozzi, in luogo di mostrare il fair play dello sconfitto predicesse spavaldo il suo rientro, questa volta definitivo, per finire il lavoro iniziato.
Come raramente – dal che si comprende che il potere viene da Dio – accade, quella premonizione si avverò: implausibile nelle paludi del governo Dini e della presidenza Scalfaro, impossibile nei primi anni del governo Prodi, come fatale allorché il centrosinistra si suicidò nelle lotte intestine e Bossi tornò all’ovile del centrodestra. Evento quest’ultimo cui, per il vero, il Nostro contribuì non poco, tanto da meritarsi non solo l’alloro della vittoria elettorale del 2001 ma il ministero più ambito, quello dell’Economia.
Così il ciclo si chiuse e Giulio Tremonti poté trovarsi nella condizione di rimettere il suo genio al servizio del Paese.
L’eredità per il vero era pesante. I ministri finanziari ulivisti non avevano rimediato in nulla ai problemi endemici delle finanze italiane, primo tra tutti la riforma del sistema pensionistico. In particolare Visco, da ministro delle Finanze, si distinse per una politica strabica che favoriva le grandi imprese con una fortissima riduzione dell’Irpeg sui rendimenti del capitale proprio investito (la dual income tax) e una imposta favorevolmente differenziale sulle ristrutturazioni societarie che dava la stura ad ogni elusione, e tartassava i piccoli con l’Irap, l’imposta sull’intensità di lavoro, e un amministrare intimidatorio, fatto di cartelle esattoriali usate come avvisi di garanzia (14 milioni d’un colpo, nel periodo aureo, un’intera finanziaria sostenuta da questi recuperi) e di una disciplina sanzionatoria feroce, elaborata da ex maoisti finalmente al potere.
Ma la fregatura vera fu l’euro. Negoziata una parità umiliante, importammo fatalmente inflazione. 2mila lire per un euro doveva voler dire raddoppio o quasi dei prezzi della frutta, del pane, dell’olio, del vino, dei giornali, dei caffè, delle calze e via elencando. Certo dapprima le massaie ricordarono i prezzi in lire e si opposero testarde. Ma poi scese l’oblio, e la nazione si abbandonò alle leggi fatali dell’economia che volevano che i prezzi di Düsseldorf fossero gli stessi di quelli di Bologna.
Tremonti iniziò deciso. Il suo primo decreto era come uno squillo di carica: semplificazioni amministrative e riedizione della sua fortunata legge sulla detassazione degli investimenti.
Ma era destino che il suo genio fosse ostacolato, perché meglio risaltasse. Venne l’11 settembre e un’economia già a fine ciclo entrò in recessione. Una disdetta, perché tagliare le tasse, come lui voleva fare e fare subito, sarebbe stato possibile solo con un Pil in crescita, a compensare il minor gettito. L’inflazione galoppante da euro gli impediva poi di spostare il carico fiscale dalle dirette alle indirette. E soprattutto, una Ue occhiuta e in malafede voleva castigare l’Italia.
Si adattò. La “finanza creativa”, che gli invidiosi soloni dell’ortodossia finanziaria gli addebitarono, fu il suo nuovo capolavoro. Tassare ma simultamente, vendendo indulgenze, condoni valutari e fiscali che arrivavano come benefiche confessioni cattoliche e miglioravano il sonno degli italiani; vendere palazzi di Stato quando i mercati diffidavano di imprese: questi i suoi saggi rimedi per scollinare gli anni di vacche magre.
E intanto una riforma fiscale annunciata, grande, ma fatta di moduli a diverso impatto. E il cominciare da quello che rimestava assai le carte ma poco influiva sul gettito, la riforma delle imposte sulle imprese che rimetteva l’Italia in competizione con le piazze finanziarie mondiali.
Ed ora, con la ripresa economica incipiente, finalmente, i due ultimi moduli, quelli decisivi. La riduzione dell’Irpef, l’imposta sulle persone fisiche e l’abolizione dell’Irap. Subito la prima, che era quella su cui il governo si era giocato la credibilità, e poi, sul finire della legislatura la seconda, la tassa imbecille che tutti volevano togliere ma nessuno sapeva come. E Tremonti sapeva come fare e l’una e l’altra cosa. L’Irpef al massimo al 33%, per tagliare le unghie agli spreconi di Stato e fargli fare finalmente i conti con le tasche dei cittadini. E al posto dell’Irap, che pone a carico delle imprese il costo del servizio sanitario – cioè un servizio che va ad ogni cittadino e non solo agli occupati (assurdo nevvero?) –, addizionali Irpef regionali e un incremento dell’Iva. La vittoria alle elezioni politiche del 2006 ancora a portata di mano, con il Nord, la chiave del successo, che dopo la libera uscita del 2004, avrebbe votato col portafoglio e riconfermato la fiducia al suo ministro.
Ma si sa, le cose umane non sono dominate dalla razionalità. La razionalità avrebbe voluto che continuasse il gioco dell’arroganza tremontiana e delle rivendicazioni degli alleati. Senza però che questo sfociasse in rissa quotidiana a mezzo stampa, ma riservatamente, come usa farsi nelle serie famiglie politiche. E invece il gioco ha preso il sopravvento e Fini, come non accade agli statisti, non ha saputo dominarlo: ha finito per chiedere la testa del Grande Antipatico che gli è stata, forse inaspettatamente, data. Con il risultato che, caduto Tremonti, Fini si è trovato sbilanciato e senza più appoggio polemico. Ed anche Follini, che poteva seriamente rinegoziare, Tremonti in sella, il ritorno a un moderato proporzionalismo, si dovrà accontentare e di molto, nonostante i proclami e le sceneggiate. Perché di fronte adesso non ha più il Grande Antipatico ma il Grande Politico, che lo sfinirà tra sorrisi, blandizie, minacce sempre smentite e continui cambi di rotta, tra un tavolo di trattativa e l’altro. Ed ora che succederà? Qualche temeraria profezia. Al programma liberista tremontiano, rimenzionato nella sua versione pura e dura, riforma delle pensioni inclusa, da Giavazzi sul Corriere di giovedì scorso, così da assicurare alla coalizione di governo la certa sconfitta elettorale, ne subentrerà uno – siate certi – assai più pragmatico. Già si parla di tre aliquote Irpef anziché due per far posto a un taglio all’Irap e accontentare anche la Confindustria. E poi perché litigare con Fazio, che ha vinto? Fazio è meglio averlo amico che come nemico, perché le sue benedizioni tacitano gli antagonisti, specie quelli che passano per alleati di governo. Dunque, ecco l’appeasement. E vedremo quanto durerà il monopolio di LCdM nella logica della concertazione e del fare squadra. Vedremo se reggerà, il nuovo astro dell’economia italiana, il sorriso eginetico del Grande Politico.
Berlusconi è la saggezza del liberismo al potere. Egli ascolterà tutti, e forse più di tutti ancora lui, il Grande Antipatico, ma agirà in modo duttile, inglobando tutto, perché per un politico quel che conta è anche durare. Non avremo il liberismo allo stato puro, scordiamocelo. Non avremo dunque una vera riforma delle pensioni, ma avremo il liberismo possibile sotto questo cielo, con un occhio già oltre la legislatura. Dunque, per certo, il taglio delle imposte sul reddito compensata da qualche sforbiciata alle spese e tanto sfoggio di ottimismo. E forse fra un po’ avremo anche il Quintino Sella che tutti reclamano, il Ministro Tecnico, di-alto-profilo-istituzionale con reputazione internazionale che dovrà reggere la barca finanziaria nazionale, ma lo sceglierà il Grande Politico e lo farà suo, come fece negli anni di Tangentopoli e della crisi giudiziaria di Fininvest con i Tatò e i Poli, tecnici che furono soggiogati dal fascino del Nostro.
Mi viene un ricordo calcistico. Sacchi fu per il Milan ciò che Tremonti fu per l’economia italiana. La squadra che vinse e avrebbe vinto tutto fu forgiata ma anche stremata dal tecnico. Bastò un più politico Capello, perché quella squadra conoscesse una stagione se possibile ancora più grande. Certo Berlusconi non sa di finanza quanto sa di calcio. Ma è veloce a imparare e sa, per lunga esperienza di imprenditore, che le aziende si governano col cuore non con la testa. Intanto all’Ecofin ha fatto goal e la limatura di giudizio di Standard & Poor’s ha alimentato qualche paginata di giornale ma non certo i tassi del debito pubblico italiano, che continuano ad essere bassi come sempre (e peraltro Moody’s ha riconfermato il rate, quindi uno a uno), poi il decreto da 7,5 miliardi che gli chiedeva la Commissione europea l’ha varato, e anche lì siamo a posto.
Adesso assisteremo a uno psicodramma in puro stile democristiano, con l’Udc che, sfinito dalla verifica, annuncerà di avere vinto su tutto e di potere rientrare al governo. Ma al governo ci starà soprattutto lui, il Grande Politico, con in mano, fino alla nomina del suo supertecnico, la carta potente dell’economia. Se poi, per caso, Bush rivince le elezioni e il Pil si mette a crescere con percentuali meno omeopatiche delle attuali, si arriva alle elezioni del 2006 e magari le si vince pure.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!