Il lobbing difensivo degli ebrei americani

Di Lorenzo Albacete
17 Gennaio 2002
I miei amici in Europa mi chiedono spesso di spiegare perché gli americani garantiscano un appoggio apparentemente incondizionato ad Israele, ai danni della causa palestinese.

I miei amici in Europa mi chiedono spesso di spiegare perché gli americani garantiscano un appoggio apparentemente incondizionato ad Israele, ai danni della causa palestinese. Si domandano se ciò non sia la dimostrazione del potere delle lobby ebraiche. D’altra parte, molti americani rimangono a loro volta sorpresi da quello che considerano un pregiudizio europeo contro Israele e si chiedono se questa posizione non nasca da un molto ben radicato antisemitismo. La solidarietà Usa ad Israele, certamente influenzata dalle lobby ebraiche, non dovrebbe stupire nessuno: l’America è un Paese costituito da comunità d’immigrati, ognuna delle quali promuove gli interessi della madrepatria (di recente, su un settimanale, è apparso un articolo che ricordava come, durante la seconda guerra mondiale, alcuni membri della comunità italo-americana furono accusati di simpatizzare per le politiche del governo fascista. E se tanti rievocano con rammarico le sofferenze dei cittadini Usa d’origine giapponese durante quegli stessi anni, pochi sembrano conoscere quelle patite dagli italo-americani. Verso entrambi, il governo adottò provvedimenti assai più discriminatori di quelli che oggi sono stati introdotti nei confronti della comunità arabo-americana e che tanta preoccupazione sollevano fra gli osservatori).

Certo, la lobby filo-israeliana è particolarmente attiva e forte, specialmente da quando gli ebrei si sono conquistati un’influenza sulla società che va ben oltre la loro forza numerica. Influenza che indubbiamente rappresenta il frutto di un elevato livello di cultura e professionalità.

Eppure, gli ebrei americani hanno sofferto discriminazioni per lunghi anni, nonostante un grado di cultura e di ricchezza cresciuto fino a raggiungere, e in non pochi casi a superare, quello dei leader dell’establishment finanziario, politico e culturale. A dispetto della natura secolare dello Stato, il popolo ha sempre concepito l’America come una nazione culturalmente e, soprattutto, eticamente “cristiana” (intendendo con ciò “protestante”). Tanto da guardare gli ebrei come una possibile minaccia per questa comune identità culturale, e ciò non tanto in forza della loro religione (gli Usa hanno sempre accettato di buon grado il pluralismo religioso), quanto piuttosto per un criterio morale percepito come differente. Per tutta risposta i leader del mondo ebraico americano si sono impegnati a sradicare il controsenso di una società con ogni evidenza secolarizzata e tuttavia ancora legata alla nozione di “identità cristiana”, il che ha finito per consolidare i pregiudizi contro di loro. Ancora oggi, è questo lo stato d’animo di molti segmenti della società americana. Gli ebrei americani se ne rendono conto, perciò non danno per scontato che gli Usa continuino anche in futuro a sostenere Israele. Temono che quando i cittadini – la maggior parte dei quali, normalmente, non pensa o si preoccupa assai poco delle relazioni internazionali – torneranno a interessarsi della politica estera del paese, come sta appunto accadendo oggi, il sostegno americano ad Israele possa venire meno. Per questo i loro sforzi di lobbing sono assai più difensivi che aggressivi. Del resto, la politica israeliana non trova sempre il consenso degli ebrei americani: paradossalmente però, proprio quando c’è disaccordo, la necessità di contrastare qualsiasi indirizzo politico che potrebbe indebolire l’impegno americano a difendere l’esistenza dello Stato d’Israele si fa più chiara.

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