
Il motore del paese immobile
Nuova Delhi
Dalit and minorities conference. È la scritta che campeggia su un muro scrostato all’entrata di Pahar Ganj, quartiere di Nuova Delhi nei pressi della stazione ferroviaria. Il messaggio è inequivocabile. Da qualche parte, nell’India sterminata e tentacolare, i senza casta e le minoranze etnico religiose si danno appuntamento. Non è difficile immaginare l’ordine del giorno delle discussioni: lotta all’emarginazione, difesa dagli estremisti indù e poi problemi atavici e forse irrisolvibili come fame, miseria e analfabetismo. L’accostamento tra gli “oppressi”, le popolazioni tribali e le confessioni diverse dall’induismo non è casuale. La divisione della società in caste ha creato, ovviamente, sperequazioni sociali profonde. I più emarginati sono, per l’appunto, i dalit, alla cui condizione Gandhi dedicò gran parte del proprio impegno politico, ma senza aver mai pensato di rinnegare i princìpi di un’organizzazione sociale derivata dai testi sacri della tradizione vedica. Da sempre, gli strati sociali più bassi hanno guardato con interesse e, soprattutto, con speranza alle religioni monoteiste, che permettevano loro di affrancarsi dal giogo delle caste, alleviandone le sofferenze. Se l’induismo prevede, per i giusti, un riscatto possibile solo nella vita successiva, gli altri culti appaiono quale ancora di salvataggio non solo per l’eternità, ma anche per il tempo da trascorrere in questo mondo. Chi si converte, esce da quel sistema del dharma (gli obblighi rituali) cui solo gli indù sono sottoposti.
Nel tempio dei sikh a pochi passi dal Forte Rosso non di rado è possibile imbattersi in una scena che farebbe rabbrividire qualsiasi bramino (la casta più alta a livello spirituale): i fedeli più facoltosi lustrano le scarpe ai correligionari più poveri, ostentando il proprio rigetto per una gerarchia sociale fondata sul sangue. Il quartiere musulmano, adagiato ai piedi della più grande moschea dell’India, la Jama Masjid, lascia disorientati i pochi stranieri che hanno sufficiente pelo sullo stomaco per addentrarvisi: la cornice di palazzi decrepiti che, di mese in mese, guadagnano metri in altezza aggiungendo un barcollante piano sull’altro per far posto ad una popolazione in progressivo aumento, porta i segni della conversione degli strati che sono relegati sin dalla nascita ai margini più estremi della piramide castale. A prima vista, sembrano più poveri, più sporchi, più disperati. I senza tetto, coperti di stracci sbrindellati, attendono pazienti, seduti nell’acqua di una fogna saltata, un tozzo di pane. Ma, a modo loro, possono considerarsi quasi fortunati: i musulmani praticano regolarmente la zakat, l’elemosina, come prescritto dal Profeta. Sono tanti, gli islamici indiani, circa centocinquanta milioni.
I cristiani, viceversa, rappresentano una sparuta minoranza, sempre tenendo conto del gap che intercorre tra la scala quantitativa europea e quella indiana. Con venticinque milioni di fedeli, di cui diciassette milioni cattolici, raggiungono solo il 3 per cento della popolazione complessiva. Eppure, il loro peso sociale si fa sentire, eccome. Da soli gestiscono il 20 per cento dell’educazione primaria e il 10 per cento dei programmi di alfabetizzazione e di sanità pubblica, assistono il 25 per cento degli orfani e delle vedove e curano il 30 per cento di disabili, lebbrosi e malati di Aids. Cifre da capogiro. In buona sostanza, costituiscono l’unico palliativo per milioni di persone altrimenti abbandonate ad un destino di sofferenze che si concluderebbero solo con la morte. Già, perché da queste parti, dove non arrivano gli istituti cristiani, presumibilmente non giungerà nessuno. Non lo Stato, impegnato a promuovere il boom economico e a giocare con i “grandi” del mondo sullo scacchiere internazionale, né l’inconsistente rete assistenziale induista, troppo attenta ai suoi mille distinguo. Forse giusto qualche Ong europea o statunitense.
Oltre il retaggio coloniale
Il capitolo dell’istruzione ha rappresentato, e rappresenta, la chiave di volta per il relativo affrancamento dei cristiani dalla metodica discriminazione sociale del passato, derivata dall’equazione che li rendeva sinonimo del colonialismo britannico e dagli eccessi conosciuti dal proselitismo di alcune sette protestanti. D’altronde se appare chiaro che l’induismo, a differenza delle religioni ecumeniche, non desideri abbracciare il mondo, allo stesso modo non gradisce che sia il mondo a tentare questo contatto. A dispetto dei musulmani, che patiscono ancora le ripercussioni delle tensioni con il Pakistan, i cristiani hanno progressivamente guadagnato la fiducia dell’upper class indiana grazie alle punte di eccellenza toccate dalle scuole e dalle università gestite dagli ordini religiosi presenti nel subcontinente, divenendo un elemento imprescindibile per un paese dove il 40 per cento della popolazione ha meno di diciotto anni.
Su tutti gesuiti e salesiani, particolarmente radicati nelle ex colonie portoghesi e francesi di Goa e Pondicherry, nelle grandi metropoli della costa e nel cuore dell’industria hi-tech nazionale, Bangalore. Ed è proprio questo settore a beneficiare maggiormente dell’istruzione impartita negli istituti cristiani. Una parte cospicua degli indiani che stanno guidando il paese alla ribalta del fenomeno di interdipendenza culturale ed economica meglio noto come globalizzazione, hanno studiato in centri come il Saint Xavier college di Calcutta. Qui metabolizzano un modello di vita in cui all’individuo viene concessa la possibilità di affermarsi come singolo e non solo rispetto a quella conformità di comportamento con i suoi pari casta capace di arrestare ogni impulso all’innovazione. Proprio quest’ultimo fenomeno ha determinato il ritardo dell’India nella corsa allo sviluppo rispetto alla Cina, nonostante potesse contare su condizioni di partenza migliori di quelle dell’ex Celeste Impero: un sistema democratico avviato e condiviso, una maggiore prossimità ai mercati occidentali e una diffusa conoscenza della lingua inglese.
I tempi cambiano, ma l’educazione resta un investimento a lungo termine. Soprattutto se non sorretto sistematicamente dalla macchina statale. Il contrasto tra i bambini di strada, seminudi e affamati, che contendono il “marciapiede” a ratti e cani randagi e gli scolari sorridenti con le divise tutte uguali delle scuole cattoliche è impressionante. Torna alla memoria l’enciclica Ecclesia in Asia. Quel continente ha bisogno di Cristo, diceva Giovanni Paolo II. Certo l’evangelizzazione deve rispettare le altre religioni e le usanze locali. Non a caso, nel cuore della vecchia Delhi, vicino a Chandni Chowk, la strada che, se percorsa dopo il calar del sole, sembra condurre dritta verso il peggiore dei gironi danteschi, sorge una parrocchia evangelica che sembra uno strano mix tra un tempio indù e quelle chiese dai nomi strampalati dei dintorni di Las Vegas. Illuminata a giorno in occasione del Natale, kitsch, inconcepibile in Europa. Per tanti indiani, probabilmente, non così sui generis.
Quando le gerarchie sono sacre
Anche per altri aspetti le minoranze religiose si sono adeguate ai costumi del posto. C’è chi sostiene, ad esempio, che all’interno delle comunità viga, almeno ufficiosamente, la stessa divisione castale valida nel resto della società. I bramini, a cui la consuetudine ha demandato il ruolo di mediazione tra la dimensione terrena e quella divina, la fanno da padroni. Così avviene nelle chiese indiane di ceppo più antico, quelle di rito siriano della costa sud occidentale, e nelle tribù Khasi del Sikkim di cui una buona fetta scelse la conversione nel XIX secolo per ribadire la propria diversità dagli altri indiani. E questa sorta di sacralizzazione delle gerarchie si conferma anche nella sparuta comunità ebraica, che si divide in una casta superiore ed una inferiore, considerata “intoccabile” dagli stessi correligionari. I nuovi convertiti devono affrontare anche altre dure realtà. Quelli di casta bassa perdono le quote loro assegnate in virtù del sistema di discriminazione positiva nell’assegnazione dei posti di lavoro. Chi esce volontariamente dal ciclo del samsara (la trasmigrazione dell’anima), non può più ambire ad un impiego destinato al suo gruppo di appartenenza. E poi ci sono le persecuzioni. Le stragi. I morti. Ne sanno qualcosa nello stato occidentale dell’Orissa, dove il Natale non ha portato gioia, ma esclusivamente devastazione. Sebbene siano “solo” sei gli omicidi registrati dalle cronache, i danni totali sono molto ingenti: cinquemila persone colpite, seicento case distrutte o danneggiate, settanta tra chiese, scuole e altri edifici attaccati nel corso dell’esplosione di follia collettiva dei “pazzi di Vishnu” che ha funestato i giorni tra il 24 ed 27 dello scorso dicembre, quelli in cui la comunità cristiana locale si raccoglie in preghiera. Non è la prima volta, purtroppo. Padre Cosmon Arockiaraj, membro della Conferenza episcopale indiana, non usa mezzi termini, nel conferire agli attacchi una matrice politica e non religiosa, come conseguenza diretta della volontà dei nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party (Bjp) di minare l’opera di riscatto sociale messa in atto dalla comunità cristiana a vantaggio dei diseredati.
Utilizzando i nostri strumenti concettuali risulta impossibile comprendere il senso di una divisione sociale tanto codificata, secondo la quale sono proprio le caste inferiori a poter trarre il maggior vantaggio dall’ortodossia rituale. I nostri occhi restano troppo sconvolti dalla totale assenza di un valore costitutivo dell’Europa, la carità, che pur derivando dalla religione cristiana trova consenso unanime tanto tra i credenti, quanto tra gli atei più ostinati. Ma tutte le nostre incrollabili certezze vengono scosse quando le labbra rosee di Rudy, una ventiduenne di Bombay che lavora nel mondo della moda e sembrerebbe seguire la way of life occidentale, con angelica innocenza affermano: «Per noi indù il rispetto nei confronti dei poveri implica tenersi a distanza da loro».
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