
Il muro di Pristina
Bill Clinton alla fine lo ha ammesso: “Nei rapporti tra Usa e Russia questo è il momento più difficile dalla fine della guerra fredda”. Passata l’euforia occidentale delle prime ore, dimenticate le dichiarazioni di vittoria del presidente americano che con la pace sembrava aver festeggiato il suo personale Oscar alla sceneggiatura del nuovo film sui Balcani, ecco la dura realtà del braccio di ferro Russia-Nato, dei serbi che accolgono i militari di Mosca come liberatori, rallentano la ritirata e preparano trappole alle truppe alleate che avanzano e prendono posizione nei “settori” assegnati dall’accordo con Milosevic. Sì, è vero, tutto lascia supporre che la Russia non si accontenterà di fare da comprimario alle operazioni che presiedono all’applicazione della risoluzione Onu che obbliga al ritiro l’esercito serbo, ma non alla cessazione della sovranità di Belgrado sul Kosovo. D’altra parte questo a Mosca lo si era saputo la scorsa settimana per ammissione esplicita dello stesso Cernomyrdin, protagonista delle missioni decisive per la “resa” di Milosevic. Subito dopo aver ottenuto l’accordo jugoslavo al “piano di pace” Cernomyrdin-Talbott-Athisaari, il rappresentante russo Viktor Cernomyrdin aveva rilasciato un’intervista alla televisione di Stato, sfogando un po’ la tensione che lo aveva accompagnato nell’ultima settimana di estenuanti trattative. “È ora di finirla con questa storia di Cernomyrdin che non è un diplomatico e non sa fare trattative – aveva sbottato l’ex premier – io ero lì per difendere gli interessi della Russia, non quelli della Serbia o di altri paesi”. Dichiarazione illuminante, che fa giustizia dell’affettata solidarietà tra i “fratelli slavi” per svelare il vero senso del conflitto balcanico: rinegoziare e ribadire i nuovi criteri di divisione del mondo tra russi e americani, che si erano troppo confusi nell’ultimo decennio di finta politica buonista. La nomina del più “pesante” politico eltsiniano a mediatore per i Balcani aveva infatti suscitato diverse perplessità e rivelava a prima vista una motivazione di politica interna, volta a scavare la terra sotto i piedi all’ormai scomodo Primakov, che infatti è stato in seguito giubilato e ora cerca un’improbabile rivincita candidandosi alle presidenziali russe del 2000. Il gruppo di potere riunito intorno al vecchio e malato presidente aveva l’assoluta esigenza di riprendersi almeno alcune delle posizioni perdute dopo il crollo del rublo dell’agosto ’98, e gli eventi balcanici hanno fornito un’occasione d’oro per riequilibrare la politica interna russa, che senza questa guerra sarebbe stata assai più conflittuale.
Un secondo significato, abbastanza evidente, dell’incarico di Cernomyrdin è proprio legato ai rapporti con gli Stati Uniti, dei quali l’ex premier è sempre stato leale sostenitore. Dietro la facciata minacciosa e intransigente, il messaggio era chiaro: mettiamoci d’accordo una volta per tutte. Il ruolo subalterno della Russia in questo conflitto è risultato talmente evidente che non si poteva evitare una ridefinizione dei ruoli: forse perfino gli americani, pur con tutta la rozzezza della loro politica estera da Far West, riusciranno a capire che un avversario, anche di cartone, aiuta a rimarcare la propria posizione dominante più che la tirannia assoluta, e che non basta la demonizzazione dei piccoli dittatori alla Milosevic o alla SaddamHussein per giustificare ogni azione di forza. Meglio una competizione finta, ma “nobile” con la Russia che un imperialismo unilaterale, visto che gli alleati-coloni europei non riescono a scrollarsi di dosso la tradizionale apatia della non-politica internazionale europea.
Illuminante anche la composizione della “troika” dei mediatori, espressione dei nuovi “equilibri” post-balcanici: accanto al “fantoccione” russo, l’Europa è rappresentata dal “fantoccino” finlandese (per tradizione, un russo mascherato da europeo) e l’America da “Vanja” Talbott, il più russofilo di tutta l’amministrazione yankee, vecchio frequentatore di alberghi e circoli moscoviti (il “nostro uomo” a Washington). Insomma, la guerra come fattore stabilizzante della politica, perché non c’è nulla di meglio di una trattativa di pace per spartirsi la torta, rendendo i bocconi più saporiti, o quantomeno non indigesti. Da Yalta a Pristina, verso il Duemila, passando probabilmente da una nuova spartizione e un nuovo muro, ieri a Berlino, oggi in Kosovo.
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