Il peacekeeper dell’Onu Angeli: «Racconto dieci anni di Italia in Afghanistan»

Di Emanuela Campanile
30 Giugno 2011
Dall'operazione Enduring Freedom del 2001 per sradicare Al Qaeda dall'Afghanistan, dopo l'attacco dell'11 settembre, alla nascita dell'Isaf nel 2006, forza internazionale a guida Nato per stabilizzare il paese. Andrea Angeli, impegnato con l'Onu da vent’anni nel ruolo di peacekeeper racconta il tratto distintivo della missione italiana

Obiettivo Afghanistan: sconfiggere il terrorismo internazionale. A poco più di un mese dall’attacco alle Torri Gemelle, 70 paesi decidono di collaborare per sradicare Al Qaeda. In codice, l’operazione si chiamerà Enduring Freedom e l’Italia vi prenderà parte dal 18 novembre 2001. Parallelamente alla lotta globale contro il terrorismo, la Comunità internazionale mira a stabilizzare l’Afghanistan. Nel 2006 nasce così l’Isaf (International Security Assistance Force ) a guida Nato e l’Italia, anche qui, entrerà in campo.

L’impegno dei nostri soldati in questo tormentato Paese asiatico dura quindi da dieci lunghi anni. Andrea Angeli, impegnato con l’Onu da vent’anni nel ruolo di peacekeeper e autore di Professione Peacekeeper e Senza pace da Nassiriyah a Kabul, storie in prima linea (Rubbettino editore) racconta il tratto distintivo della missione italiana in Afghanistan. Il filo conduttore è la presenza quasi costante delle truppe alpine dei vari reggimenti del centro nord. Dei 37 caduti più della metà sono soldati con la penna. Al di la di questo, c’è stata una presenza diplomatica senz’altro di rilievo: prima con l’ambasciatore Domenico Giorgi che ha aperto l’ambasciata nell’era post-talebani e poi con Ettore Sequi, che dopo l’incarico nazionale è rimasto altri due anni come rappresentante europeo. Inoltre, alla Farnesina c’è sempre stata una attenzione particolare per l’Afghanistan grazie alla presenza di un inviato speciale itinerante per la regione. Un incarico ricoperto per primo  dall’ambasciatore Enrico De Maio e successivamente da altri alti diplomatici, tra cui Massimo Iannucci che ricorderemo sempre come super-mediatore nello spinoso caso dell’arresto dei tre operatori di Emergency lo scorso anno.

Da quel lontano 2001 ad oggi, il contributo italiano in Afghanistan è cambiato?
Certamente l’Italia ha seguito con determinazione quelle che sono state le direttive, le linee guida della comunità internazionale prima, e poi della Nato, da quando l’Alleanza ha preso la guida di gran parte delle operazioni. All’allargamento del ruolo della Nato è seguito quello dell’Italia, che ha preso il controllo di aree sempre più estese della regione ovest. Abbiamo peraltro anche avuto il comando dell’intera forza Nato-Isaf con il generale – ora senatore – Mauro del Vecchio.

Tra i settori in cui l’Italia è intervenuta c’è anche quello sulla riforma giudiziaria afghana.
Dopo la conferenza di Bonn, l’Italia prese la guida della riforma giudiziaria in Afghanistan. Il rafforzamento delle istituzioni è uno dei primi compiti dell’intervento in quel Paese, con particolare attenzione per il suo sistema giudiziario. Il primo responsabile del programma fu il magistrato Giuseppe Di Gennaro, lo stesso che aveva guidato l’organismo antidroga dell’Onu negli anni ottanta e che poi aveva operato in Albania, sempre nel settore giudiziario. Dopo di lui venne la prima donna col grado di ambasciatore, Jolanda Brunetta, che conosceva molto bene l’Asia centrale. Ora questo programma è stato trasferito – e ridotto nel personale – alla cooperazione governativa italiana. Non è certamente un settore facile su cui operare, ci sono varie teorie sulle linee guida da seguire nella riforma dei vari codici. Non dimentichiamo che sono processi di riforma che se non hanno un forte avallo della componente nazionale difficilmente riusciranno ad essere attuati. Non vi nascondo che sono programmi e progetti molto ambiziosi.

Con la decisione di Obama di ritirare definitivamente le truppe dall’Afghanistan entro il 2014, il ruolo dell’Italia all’interno dell’Isaf verrà ripensato?
Avendo gli Stati Uniti il contingente di gran lunga maggiore, è ovvio che tutti gli altri Paesi dovranno raccordarsi con le decisioni dell’amministrazione Obama. Certo, va anche detto che saranno passaggi che richiederanno del tempo e che ci saranno degli aggiustamenti. Da qui al 2014 molte cose possono accadere. D’altronde, a prescindere dalla reale situazione sul terreno, dobbiamo tener presente che le missioni non possono durare troppo nel tempo. E’ una teoria che molti esperti di peacekeeping hanno sostenuto: il tempo non sempre gioca a favore ed è inevitabile una certa stanchezza da parte dell’opinione pubblica sia del Paese che ospita le truppe, che di quello che le invia. Sono segnali che si sono cominciati ad avvertire già da qualche anno in Italia come del resto in Europa e negli Stati Uniti.

L’opinione pubblica italiana come ha reagito lungo tutti questi dieci anni?
Non c’è dubbio che questa missione ha avuto un grande supporto popolare non solo all’inizio ma anche negli anni successivi. Dopo di che, alla boa dei dieci anni, non c’è nulla di strano che si discuta di nuovi assetti, di riduzioni o di quello che sarà, sia a livello parlamentare che a livello di opinione pubblica. Anzi, ben vengano discussioni in proposito perché parliamo di spedizioni che comportano sacrifici in termini di vite umane ed uno sforzo economico considerevole. Non dimentichiamoci poi che se ci si concentra troppo su un Paese, è possibile che impegni che dovrebbero essere rivolti in altra direzione non possano essere portati avanti. Le risorse umane e finanziarie da destinare ad operazioni fuori area non sono illimitate e il numero di soldati che l’Italia ha al momento all’estero è vicino al tetto massimo di quelli che si possono ragionevolmente dispiegare.

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