
Il precario esiste
La lotta al precariato è il mantra lavoristico dell’Unione, ciò in cui si incarna la goffissima riproposizione del luogo comune secondo il quale il capitalista vuole lo sfruttamento del lavoratore senza diritti. Il mantra si basa su quattro pilastri sbilenchi. È fondato su un falso storico: il precariato è nato e si è accresciuto con la legge Biagi (30/2003). Spaccia cifre mendaci, mentre nessuno sembra davvero sapere di che cosa si parli. Divide pure l’Unione: non paghi delle stangate in Finanziaria ai parasubordinati, autonomi e apprendisti, nonché del diktat unilaterale con cui il ministro del Lavoro Cesare Damiano ha recentemente stracciato l’avviso comune del 2001 tra imprese e sindacati (Cgil esclusa, naturalmente) in materia di contratti a tempo determinato, la sinistra antagonista sfila per le vie di Roma accusando proprio Damiano e Fassino di essere “servi del padrone”, come si diceva una volta. Infine, propone una ricetta che tornerà come un boomerang sulla testa proprio dei precari.
I milioni di atipici sono 300 mila
L’accusa alla Biagi è infame. Il precariato – cioè il lavoro a tempo – identifica infatti tre tipologie. I contratti a termine, disciplinati dall’avviso comune ricordato che oggi Damiano straccia, ammonendo imprese e sindacati che o in tre mesi assecondano il governo nel presupposto che il lavoro «deve essere a tempo indeterminato» oppure il governo emanerà una tale norma lui da solo, alla faccia della concertazione. Il lavoro interinale, introdotto dal pacchetto Treu del centrosinistra nel 1997. E infine le collaborazioni, esplose dopo l’introduzione a opera della riforma Dini della “gestione parasubordinati” presso l’Inps: quando la legge 30 fu varata, gli iscritti erano già 2,8 milioni, di cui 1,6 contribuenti e gli altri iscritti ma privi di versamenti. In nessun caso la legge Biagi è responsabile del precariato: anzi nacque proprio per distinguere un’area di lavoro da ricondurre a quello dipendente e alle sue garanzie, da un’altra che fosse giustificatamene “a tempo”, in ragione di un progetto o di un programma ad hoc. Gli ispettori del lavoro di Damiano, proprio in applicazione della Biagi, hanno creduto di estendere l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato ai call center di Atesia: il Tar non è d’accordo e vedremo nel merito, ma è la miglior prova che la sinistra antagonista e la Cgil sulla legge 30 hanno torto.
Quanto ai numeri del famigerato “esercito dei precari”, vediamo di fare chiarezza. Gli ultimi dati disponibili, disaggregati e interpretabili, degli iscritti al fondo parasubordinati si riferiscono alla fine del 2004. A tale data, nel totale essi ammontavano a 3,3 milioni, dei quali i contribuenti erano passati, dopo la Biagi, da 1,6 milioni a 1,78. Secondo gli stessi criteri adottati dal Coordinamento statistico dell’Inps, sul totale degli iscritti al fondo sono poco più di un milione coloro che svolgono esclusivamente attività di collaborazione, 135 mila i già pensionati che in più collaborano, 335 mila coloro che svolgono una collaborazione sommandola a un altro lavoro. Vanno però distinti, nel milione di “soli collaboratori”, coloro che versano contributi in proprio invece che attraverso il committente della collaborazione: i primi sono infatti professionisti autonomi a tutti gli effetti, non precari. In questa sottoclasse, troviamo infatti oltre 250 mila tra amministratori, sindaci e revisori di società, 30 mila contabili e consulenti amministrativi, 60 mila consulenti aziendali, 22 mila consulenti informatici, 6.500 consulenti immobiliari, 3.200 estetisti, 14 mila professionisti della salute (pranoterapeuti e varie specializzazioni della medicina del benessere non riconosciute in albi), e via proseguendo. Compiuta tale necessaria scrematura del milione di “soli collaboratori”, la fascia di precariato vero e proprio si restringe fino a non superare troppo il 50 per cento: in altre parole poco più di 500 mila persone.
Ma anche tra quei 500 mila, occorre in realtà distinguere tra alcune figure la cui applicazione al ciclo d’impresa non può che fisiologicamente avvenire attraverso collaborazioni (come i 53 mila docenti di formazione e istruttori professionali, o gli stagionali come i 1.500 animatori turistici, nonché i 3.500 operatori della moda che gravitano intorno alle grandi sfilate) rispetto invece ad altre sulle quali possono motivatamente insorgere dubbi, sul fatto cioè che siano lavori a tempo indeterminato “travestiti” da collaborazioni per risparmiare su tutele dello Statuto dei lavoratori e sui contributi previdenziali dovuti: classico esempio – vedi caso Atesia – i 38 mila addetti al marketing e ai sondaggi dei call center, o buona parte dei 14 mila collaboratori di giornali e riviste. In tali casi, è vero, sarebbe più giusto probabilmente che le imprese committenti stipulassero veri e propri contratti a termine, più onerosi e assai più prossimi per tutele al lavoro dipendente. Ma attenzione. Anche in quel caso non sarebbe affatto risolto il problema della precarietà. E comunque stiamo parlando di circa 250 mila-300 mila “atipici”. Ecco, nella sua reale consistenza certificata, il vero “cuore debole” del problema: non i milioni e milioni di presunti precari di cui parla la sinistra. Il che contribuisce a sfatare gran parte dell’allarmismo sociale evocato dalla martellante campagna sui nuovi “diseredati dal grande capitale”.
Dàgli al parasubordinato
Molto altro vi sarebbe da dire, sempre parlando di numeri. Primo, dopo la legge Biagi la crescita dei collaboratori è diminuita rispetto agli anni precedenti, non aumentata. Secondo: la riduzione ha riguardato proprio le fasce che più vengono dipinte come colpite da precarietà diffusa, i giovani e le donne. Terzo: è strepitosamente aumentato il numero degli ultrasessantenni, che hanno superato i giovani sotto i 25 anni. Quarto: è vero, nel “cuore” dei 300 mila è di assoluta preponderanza il numero di collaboratori giovani e donne, che versano contributi del tutto inadeguati a far loro maturare pensioni anche minimamente accettabili.
La conclusione, però, è che il fondo lavoratori parasubordinati, dalla sua istituzione a oggi, ha “girato” al meccanismo a ripartizione degli altri fondi deficitari dell’Inps circa 34 miliardi di euro, e che nel solo 2006 è previsto un nuovo saldo in attivo per quasi 6 miliardi. Il governo, in questa situazione, cavalcando la campagna ideologica della lotta al precariato ha operato una stangata di aumenti contributivi sui parasubordinati, il cui effetto sarà tre volte negativo: renderà la vita ancora più difficile ai 300 mila del “cuore debole” e alla loro possibilità di avere una pensione sia pur minima; non la complicherà poi troppo all’esercito dei professionisti collaboratori; accrescerà l’ingiusto travaso che avviene a danno proprio del fondo parasubordinati, a favore di quello dei lavoratori dipendenti. Come rendere le vittime più deboli, insomma, ma con molta propaganda.
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