
IL QUORUM? LO HA RAGGIUNTO SOLO L’OMOLOGAZIONE
Contro ogni previsione, radicale e non, solo il 25,5 per cento degli italiani è andato alle urne. La chiamano la Caporetto dei sondaggisti.
È nell’interesse di tutte le società di rilevazione lavorare su un buon campionamento, pena la reputazione dell’intera società e la perdita dei clienti: essendo gran parte dei sondaggi legata al marketing, escluderei che il difetto nelle eventuali difformità nelle stime sia legato alla costruzione del campione. Regole di trasparenza prevedono un rinvio alla certificazione di qualità del sito dell’authority per la comunicazione, o a un’altra banca dati, che indichi fonti, periodo e “forchetta”, il margine d’errore del sondaggio. Ma se a fare il proclama è un partito che non dichiara chi ha raccolto i dati, come e perché, entriamo in un’altra logica: il sondaggio ha un ruolo determinante nella battaglia di opinione, e io credo che nelle ottimistiche dichiarazioni dei Radicali abbia giocato un campione troppo piccolo e selezionato insieme all’effetto propaganda.
Il punto cruciale della questione è rappresentato invece dal momento in cui si svolge il sondaggio e dalla sua ripetizione nel tempo. Perché quando una questione entra per la prima volta nell’agenda politica, il grado di informazione è ancora molto basso, così introdurre un sondaggio nel circuito della comunicazione apre al tema: ripeterlo è necessario perché è nel tempo che si formano le conoscenze e le valutazioni dell’opinione pubblica. Ora, è possibile che in un certo momento del sondaggio effettuato ci sia stata una grande quantità di incerti e che si abbia avuto la tentazione di attribuire loro l’orientamento medio di quanti si sono pronunciati, avvicinandoci al quorum.
Da ultimo, molto dipende anche dalla qualità delle interviste: una rilevazione non si costruisce grazie a un disegno teorico del campione, ma anche al basso numero di rifiuti. I giornali poi adorano proporre sondaggi presso i loro lettori o i siti: io non so Capezzone a che percentuali si riferisse, ma so che un sondaggio on line non ha alcuna rappresentatività statistica nazionale.
Pagnoncelli ha citato: il senso del dovere che porta difficilmente gli intervistati ad ammettere che vanno al mare; quello di inadeguatezza sulle questioni referendarie dell’elettorato meno preparato e, da ultimo, il fattore “liberazione Cantoni”.
Sul senso civico del voto ammettiamo la possibilità di imbatterci nella reticenza degli intervistati a dichiarare di astenersi, cosa che, per i tanti giornali schierati per il sì, è stato ritenuto un atto di anticivismo. Chi viene intervistato non sa di fatto a chi risponde e tende ad allinearsi alle aspettative del politically correct.
Quanto ciò abbia pesato nel caso di questo referendum, anche qui è possibile verificarlo solo attraverso prove ripetute. Se all’avvicinarsi del referendum il numero di coloro che avevano in precedenza dichiarato di astenersi si fosse ridotto, ci sarebbe stato un sospetto legittimo di occultamento delle reali intenzioni. Sulla questione “più comunicazione, più inadeguatezza”, invece, bisogna segmentare gli interlocutori: proprio i sondaggi hanno individuato negli astenuti per scelta circa il 35 per cento del totale degli elettori. Più il 26 che ha votato, e gli astensionisti fisiologici, tra i quali abbiamo comunque una quota astenuta non perché considerata incapace di decidere, ma al contrario, decisa su come bisognasse decidere. Il resto non ha votato perché si è reso conto che la natura dei quesiti era talmente complicata da non poterla affidare a un banale sì o no, attenendosi a un principio di conservazione molto saggio: nel dubbio ci si astiene.
La questione Cantoni avrebbe pesato prima delle politiche o regionali, se qualcuno avesse usato di questo caso nella sua propaganda e, all’ultimo, la sua liberazione avesse favorito lo schieramento opposto. Qualcosa del genere è avvenuto all’epoca della liberazione degli ostaggi italiani alla vigilia delle europee, anche se non ha sortito risultati eclatanti. Nel nostro caso, lo spazio alla vicenda Cantoni non ha nemmeno inficiato quello dell’informazione sul referendum.
Pensa che la stessa formulazione dei quesiti fosse ostica per garantire un impegno al voto?
Da un sondaggio risultava che un 50 per cento degli elettori non aveva chiaro cosa significasse “fecondazione eterologa”: o si lanciava una moneta o non si prendeva posizione, anche se io credo che il quesito dell’eterologa sia stato in realtà il più immediato da comprendere nella sua formulazione. Altrettanto semplice sarebbe stato chiedere se l’embrione era da considerarsi vita oppure no, ma porlo come se “avesse diritto di tutela giuridica” è un problema puramente tecnico: un referendum abrogativo abroga formulazioni presenti nella legge. Se la legge ha formulazioni oscure o se la parte da cancellare è particolarmente ostica, non è che si possa mettere nella scheda una versione giornalistica della norma, spetta a chi fa divulgazione dare spiegazioni.
E si è divulgato il dibattito sulla liceità di intervento della Chiesa e lo spauracchio della 194.
La mia ipotesi è che, nei giorni successivi il veto alla pubblicazione dei sondaggi, fosse diventata palese la disaffezione dell’elettorato al voto, e che la soluzione fosse caricare il referendum di contenuti impropri sfruttando la rapidità dell’effetto “allarme collettivo”. Giornalisti e direttori, alimentati a sondaggi per tenere il polso della situazione del pubblico e orientarne il posizionamento nel mercato delle opinioni, lo hanno palesato: spostare l’attenzione sull’aborto e rispolverare gli argomenti triti e ritriti dell’anticlericalismo significava che chi aveva indetto il referendum, con gli argomenti referendari, non sarebbe andato molto lontano. Ma un grande sommovimento non si instaura nell’ultima settimana, nemmeno giocando la carta aborto.
Il tormentone dell’anticlericalismo poi ha detto tutto della schizofrenia dei giornali, colonne a elogiare Papa e Chiesa, sostenitrice di pace, giustizia e solidarietà: tempo un mese, e sono stati messi alla berlina. Pensare che anche su questo gli italiani abbiano la memoria cortissima è solo un altro esempio di presunzione e irrealismo di chi fa comunicazione. Senza trascurare il fatto che l’anticlericalismo altro non è che una sottocultura di un’élite: a leggere i giornali in Italia sono 3 milioni e mezzo di italiani, se tutti influenzassero 3 persone a testa, non porterebbero il raggio di efficacia della carta stampata oltre i dieci milioni di persone, i cosiddetti italiani informati.
Come ha influito l’accalorarsi di tanti politici e uomini e donne dello spettacolo sulla questione?
Il litigio piace se è una forma di intrattenimento colorita nei talk show. Ma tra i politici non piace, desta la sensazione di avere a che fare con confusi e non fa che aumentare la diffidenza, tanto più se lo scopo del dibattito è informativo: non si informa litigando ma con idee chiare e distinte. L’uso dei testimonial è l’effetto dello schema “lancio del detersivo”: raccogliamo più testimonianze possibili su cosa lavi più bianco. Forse non ci si è resi conto che ogni persona che ha avuto un figlio o che desidera averlo, ha percepito che la posta in gioco non era il grado alcolico di una birra o il grado di sbiancante di un detersivo.
“Ha vinto Ruini”, “ha vinto il parlamento”, poi i giornali si sono “dimenticati” di tutto. Gli italiani?
Non ho sondaggi sull’indice di gradimento del cardinal Ruini o del parlamento italiano, ma non darei nemmeno per scontato che tutti gli italiani sappiano chi è Ruini. Alla Chiesa è stato riconosciuto, come ha detto lo stesso Ruini, di avere «svolto la sua parte, illuminando le coscienze secondo la dottrina che la Chiesa sempre ha proclamato sulla vita». Sul parlamento c’è da dire che esso non ha mai goduto di grande considerazione: al primo posto della fiducia nelle istituzioni c’è la famiglia, i carabinieri, la Chiesa, la Repubblica. Ma forse tocca al mondo politico ricordare come la maggioranza degli elettori abbia confermato che il parlamento funziona.
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