Il riflesso dell’eternità

Di Marina Corradi
23 Dicembre 2004
Alle otto e ventitré di una mattina limpida di dicembre

Alle otto e ventitré di una mattina limpida di dicembre, dalle parti di piazzale Maciachini a Milano, alzi lo sguardo dal semaforo rosso e incroci, sulle finestre più alte di un vecchio edificio scolastico, il riverbero del sole. Il sole è pallido al mattino presto, in dicembre, a Milano, ma in quel riflesso la luce si addensa e coagula, ha un colore fiammante sulle finestre della scuola ottocentesca, bella e severa come si facevano una volta le scuole – quando si pensava che studiare fosse un onore. E intanto viene verde e riparti, non senza tuttavia poterti nascondere che quel riflesso vermiglio colto per caso su una finestra antica ti ha bruscamente immalinconito; era anche bello, struggente in mezzo a questo grigio metropolitano, ti dici, e effimero nella sua angolatura di pochi minuti con quella parete sulla piazza. Chissà perché, ti dici con stupore, in coda dietro a un filobus, quel bel bagliore sui vetri s’è messo di traverso, e taglia, nei pensieri della tua mattina. E insistendo quella rapida vertigine di malinconia ti rassegni infine a darle retta, come a un passante molesto che t’abbia costretto a fermarti. T’ha stupito, pensi, l’immaginare che quella scuola esiste forse da centocinquant’anni, e per tutti questi anni, ogni mattina d’inverno, a questa stessa ora il sole ha sempre inciso con la stessa precisa angolazione i suoi raggi su quelle finestre; e sempre nella piazza i passanti a quell’ora ne hanno visto il gioco lucente. Come una meridiana. La stessa cosa di una meridiana. Gli uomini una volta dipingevano sui muri le tacche delle ore, e ci fissavano sopra un’asta di ferro, perché il sole tornando ogni giorno scandisse il tempo. Questa fedeltà colpiva gli uomini, infatti sono sempre solenni le frasi sulle meridiane. Ma, del riverbero di piazza Maciachini, colpisce anche che la finestra sia di una vecchia scuola. Che i bambini che per primi dietro quei vetri hanno studiato siano morti da un pezzo. In guerra, magari, o chissà dove. Molto tempo fa. Nessuno più ne ricorda il nome. Il sole che entrava nella loro aula al mattino, tuttavia, entra ancora, esattamente alla stessa ora. Identico e sovrano. Loro, i vecchi scolari, da tanto tempo fra i morti.
Tutto uguale, indifferente, mentre noi passiamo. Il sole continuerà a sorgere, regale, dopo di noi, e per gente abituata all’individualismo in cui siamo nati e cresciuti, è un pensiero che smarrisce. Solo riducendo quel povero “Io” a un “noi” – i nostri padri, noi, i nostri figli, i figli dei figli – quel riverbero sempre uguale non è più scandaloso. Solo se ci si pensa dentro un popolo quel riflesso fiammante, bellissimo – sfacciato – è la fedeltà di Dio, la vita che torna ogni mattina, per i figli che verranno.

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