
Il ritorno dell’Arialda
Piccole storie. Piccole angosce. Piccoli uomini. Piccole passioni. Mai come in questi ultimi anni, la letteratura sembra essersi ritirata in un angusto spazio privato a rimurginare languorini interiori, spiritualismi esangui, beghe da condominio. E dire che là fuori, nel mondo, tra guerre devastanti, tragedie sociali e abissi di disperazione (e mica solo in Ruanda o in Chiapas, ma proprio qui, sottocasa), non mancherebbe certo la materia per una letteratura che avesse il coraggio di misurarsi di nuovo con la realtà. E invece, niente: poeti, scrittori, ma anche cineasti, continuano quasi sempre a guardarsi nell’ombelico, a cucire artificiosi arabeschi carichi di nostaglia e pathos da spot. Chiedersi allora se quella di Giovanni Testori sia una lezione dimenticata può sembrare quasi una domanda retorica. In quale romanzo si vede oggi sanguinare la parola ferita dei paria del luccicante luna-park globale? Non certo in Eco, in Rushdie o in Mariàs – giusto per fare qualche nome gettonatissimo dall’industria culturale. I “grandi scrittori” della letteratura postmoderna hanno fatto proprio il motto del dandysmo: laddova affiora il nulla, non ci resta che lo stile. E giù una valanga di compitini di assoluta perfezione formale, ma totalmente autoreferenziali e freddi come iceberg. Il clap clap dei critici è scontato, i Gouncort fioccano e gli editori si fregano le mani. Ma i Rigoldi Gino, i Dante Pessina, le Arialde o le Gilda del Mac Mahon – insomma i povericristi e le puttanesante di Testori – ci sono ancora? Tra le pagine di romanzi, poco, pochissimo. Ma, nei nuovi ghetti metropolitani, oh quante Gilda, quanti Rigoldi Gino. Sono eserciti a cui hanno strappato tutto, anche la lingua. Quella lingua sporca, scostumata, gonfia di un’espressività quasi fisiologica, che Testori con una sensibilità acutissima, al limite del grido, aveva saputo donare loro. Ma per far scoccare la scintilla, per innestare quell’innervazione che unisca in un solo destino lo scrittore e i dannati della Terra, bisogna che l’artista non si faccia incantare dalle sirene dall’accademia, dalle camarille culturali, dalle ninne nanne che un’intellighenzia salottiera si canta e ricanta per mascherare la propria cattiva coscienza e l’insostenibile vista del volto sfigurato dell’altro. Che è poi il nostro specchio. Il sortilegio sprigionato dall’opera di Testori risiede proprio in un sentore di familiarità e di prossimità con il deserto abitato dagli ultimi, che ce lo rende misteriosamente vicino. E non è uno sguardo dall’alto il suo. Non può esserlo. Chi vuol dare voce all’emarginazione non può infatti permettersi il gesto dell’artista demiurgo che cala la mano dalle nuvole e piazza gli uomini come pedine su una scacchiera. No, chi oggi vuol dare la parola alla schiava albanese o all’ambulante maghrebino, se non vuol cadere nei più biechi stereotipi, deve avere il coraggio di attorcigliare le proprie viscere alle loro. Questo ha fatto Testori con i suoi personaggi. E solo così è riuscito, senza cadere nell’insulsaggine del mito del buon selvaggio o nella trappola demagogica del populismo, a far misurare l’uomo più umile con i volti riconoscibili del suo destino: l’amore, la follia, il dolore, la morte, la solitudine, l’egosimo, lo sfruttamento, la violenza. Non c’è futuro per una letteratura dalla parte dei perdenti? L’andamento dell’industria culturale lasciarebbe credere proprio di sì. Ma se si alzano gli occhi al di sopra della cortina fumogena della società dello spettacolo, qualcosa si vede. Embrioni, germogli, abbozzi, tentativi coraggiosi non mancano. Spesso nascono proprio là dove l’emarginazione morde di più: il carcere, i microcosmi delle varie emigrazioni, i gironi infernali delle periferie metropolitane. Il convegno di Varese darà voce a anche a queste realtà, più vicine al grido testoriano di tanta letteratura ufficiale. Niente di asettico e profumato, perciò: la letteratura che dice l’ingiustizia e l’inquietudine non è un boudoir. Ma una dolorosa discesa in una materia greve e immonda, com’è quella in cui sono intrisi i racconti, i romanzi e i drammi di Testori, dove una parola ferita e trasudante di escrezioni organiche, riesce però ad alleggerirsi miracolosamente di fronte al Mistero. Il lavorío inesausto di un’affabulazione torrenziale, fratturata, centrifuga, finisce per intessere instancabilmente connessioni inattese e “scandalose” con un Altrove che è qui in mezzo a noi. Come ci ha insegnato Testori, anche nel fango si sente pulsare l’energia della luce che fa scaturire la musica dal sordido. Ma l’artista deve sentire sulla pelle quella freccia, la cui punta ci colpisce a morte e ci spinge a cercare al di fuori, dove l’amore per l’altro – e dell’Altro – può riuscire a sciacquare via il male. Nella sua massima estensione, là dove confina con la luce, il linguaggio dei reietti testoriani diventa quasi inarticolato, com’è quello del bambino prima di saper usare le parole. Eppure, il granello di polvere, che una piccola voce rauca e spezzata impregna di dolore, riesce a descrivere l’orbita infinita.
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