
Il senso (nullo) di Renzi per la cultura

Fra una sparata sull’abolizione del canone di abbonamento alla Rai e una sul salario minimo a 10 euro all’ora, l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha trovato il modo di ficcare dentro al canovaccio della sua narrazione propagandistica per la campagna elettorale anche una dichiarazione sulla valorizzazione dei beni culturali. Compiacendosi dell’aumento del numero dei visitatori nei musei e dei relativi introiti provenienti dai biglietti staccati nel corso dell’ultima legislatura (gli incassi sarebbero passati da 140 a 200 milioni di euro all’anno), così ha commentato: «Questi dati, tra i tanti che ha reso noto oggi il ministro Dario Franceschini, dicono una cosa semplice: la frase “con la cultura non si mangia” che la destra italiana ha utilizzato per anni è una frase sbagliatissima. E non solo perché con la cultura si possono creare posti di lavoro. Ma perché ogni investimento culturale aiuta il consolidamento e la formazione dell’identità di un popolo». La frase a cui Renzi si riferisce è stata in passato attribuita a Giulio Tremonti, ministro delle Finanze nei governi Berlusconi, che ha sempre smentito di averla pronunciata. Comunque stiano le cose, che Tremonti sia un bugiardo o che sia stato frainteso e manipolato, la prima parte della dichiarazione di Renzi dimostra che l’idea di cultura che l’ex premier ha non è tanto diversa da quella che lui attribuisce alla destra becera e/o tirchia. È infatti un’idea di cultura centrata sull’avere anziché sull’essere, sulla quantità anziché sulla qualità: la cultura è un patrimonio che può produrre profitti se si prendono certi provvedimenti e se si fanno gli investimenti giusti; è un asset, una risorsa, e non un costo, come avrebbe fatto credere Tremonti. Ma sempre di qualcosa che ha a che fare coi bilanci contabili, col dare e l’avere, con le entrate e le uscite si tratterebbe. Nella seconda parte della sua dichiarazione, che è evidentemente motivata dall’esigenza propagandistica di esaltare gli aspetti economici e occupazionali dell’intervento del governo sui beni culturali, Renzi rettifica il tiro e conclude che la cultura è soprattutto cibo dell’anima, stoffa del tessuto che fa l’identità di un popolo. Ma non ci siamo neanche qui: prima che l’identità di un popolo, la cultura forma e consolida l’identità della persona; e non perché lo Stato decide di investirci sopra tanti o tantissimi soldi, ma perché alcuni esseri umani (i maestri, gli insegnanti, i genitori) si impegnano a trasmettere ad altri esseri umani, di solito più giovani dei primi, la cultura che ha reso loro e i loro padri più pienamente umani come si trasmette un’eredità. Senza una passione per la tradizione, senza qualcuno che concepisca l’educazione anzitutto come trasmissione, lo Stato può anche raddoppiare gli stanziamenti per la scuola e per i beni culturali, ma non ci sarà nessuna formazione/consolidamento dell’identità di un popolo.
Non sto facendo il pignolo per avversione allo schieramento politico guidato da Matteo Renzi. Anche il centrodestra – non ho nessun problema a sottolinearlo – ha mostrato di avere un’idea del tutto inadeguata di ciò che dovrebbero essere la scuola e la cultura quando, al tempo di Letizia Moratti ministro dell’Istruzione, si propose di varare la cosiddetta “riforma delle tre i”, che sarebbero impresa, informatica e inglese. Come se quelle fossero le tre cose più importanti a cui formare i ragazzi in vista delle sfide della vita, sfide che in questa ottica appaiono ridotte evidentemente alla ricerca del posto di lavoro. Su questa visione strettamente utilitaristica della scuola e della formazione culturale convergono curiosamente destra e sinistra: un mostro sacro dell’intellettualità di sinistra europea come il francese Pierre Bourdieu ha radicalmente criticato tutti i sistemi scolastici giudicandoli, marxisticamente, come strumenti per la riproduzione dei rapporti di potere fra le classi (occultata dall’ideologia della meritocrazia), e nella sua visione li ha tollerati come mali necessari per la preparazione al mondo del lavoro. Quando richiamano l’attenzione sui contenuti positivi o comunque accettabili della trasmissione culturale, Renzi, Moratti e Bourdieu (centro-sinistra, centro-destra, estrema sinistra) concordano che coincidono con competenze per scopi pratici che gli studenti sono chiamati ad acquisire o con risvolti pratici che i fruitori del servizio determinano all’atto della fruizione. Tutti loro restano nell’ambito di una cultura concepita come un avere, come un insieme di proprietà immateriali da trasferire a certi soggetti. Ma la cultura riguarda l’essere, riguarda il formarsi del soggetto. Come scriveva François-Xavier Bellamy nel suo magistrale I diseredati ovvero l’urgenza di trasmettere, non si tratta di un bagaglio da caricare sulle spalle, che perciò si vorrebbe il meno pesante possibile: «Definire la cultura un bagaglio significa affermare l’esistenza autonoma del proprietario di questo bagaglio, la sua personalità indipendente e autosufficiente; per quanto utile, il bagaglio rimane sempre una proprietà contingente e separata dal viaggiatore. Ma la cultura non va descritta così: anzi, è il passaggio necessario tramite il quale la nostra personalità si realizza. Non accresce quello che abbiamo, ma quello che siamo. E, per questo, non è accessoria bensì essenziale».
L’uomo vive una vita veramente umana grazie alla cultura, disse Giovanni Paolo II nel suo discorso all’Unesco nel 1980. E aggiunse: «L’uomo non può essere fuori della cultura. La cultura è un modo specifico dell'”esistere” e dell’”essere” dell’uomo». Non c’è prima il soggetto e poi la cultura che si sovrappone, come un addobbo su un albero per il Natale. Non c’è nemmeno il popolo e poi l’investimento culturale che lo consolida: no, il popolo stesso è continuamente una realtà culturale, il popolo è il risultato della trasmissione di ogni genere di sapere fra le generazioni. Quando la trasmissione si interrompe, e l’educazione diventa mettere a disposizione delle nuove generazioni grandi banche dati perché esse vi attingano a piacere, in base a criteri che loro stesse dovrebbero trovare dentro di sé, e che invece sono i criteri dei poteri dominanti del momento, il popolo muore. Gli investimenti culturali del governo genereranno magari profitti e posti di lavoro, ma non genereranno più l’umano. La logica dell’avere e la logica dell’indipendenza, sottintesi del dualismo soggetto-cultura, rendono impossibile qualsiasi educazione, qualsiasi trasmissione culturale. Perché non c’è educazione, non c’è trasmissione culturale senza dipendenza da un’alterità, che ci richiama di continuo alla nostra condizione di carenza, di povertà, di mancanza: altro che “avere”! La prima cosa che impariamo nella vita è a parlare e poi più tardi a scrivere in una certa lingua, e quella lingua non l’abbiamo creata noi e nemmeno l’abbiamo scelta: ci arriva da altri, esisteva prima di noi, e modellerà ciò che saremo nella vita senza che lo abbiamo deciso noi. Non esistono il pensiero e la lingua separatamente: il nostro pensiero si forma attraverso una certa lingua, senza lingua non potremmo pensare. Se non accettiamo la limitazione di libertà che consiste nel non poter parlare e pensare se non in una lingua che non abbiamo creato a noi, ma che altri sin da piccoli ci hanno insegnato, non saremo niente e nessuno: resteremo dei selvaggi. Crescendo potremo anche decidere di imparare un’altra lingua e parlarla al posto di quella nella quale siamo stati allevati: ma nessuno al mondo potrà mai evitare di ricevere e fare propria una lingua che gli è trasmessa da altri, come primo passo della propria personale umanizzazione. Questo che vale per la lingua vale per ogni sapere scientifico, umanistico, etico, religioso, ecc.: occorre prima accogliere l’eredità di coloro che ci hanno preceduto, farla nostra, vagliarla, verificarla. Dopo, solo dopo, potremo criticare, correggere, abiurare se riteniamo che sia la cosa giusta da fare. Ma per essere se stessi, per essere liberi, occorre partire dalla dipendenza, dal ricevere da altri, da una non libertà iniziale che è la natura stessa dell’uomo come essere culturale.
Oggi la cultura e la trasmissione della stessa non sono minacciate solo dal primato dell’avere, ma in modo ancor più insidioso dal primato dell’emozione, dallo psicologismo dilagante. Cresce con progressione geometrica il numero di coloro che contrappongono cultura ed esperienza esistenziale, ragione ed emozione, arricchimento intellettuale e gratificazione psicologica. Oggi anche un papa vitale e comunicativo come Giovanni Paolo II sarebbe accusato di intellettualismo per quello che disse all’Unesco e in altre occasioni. Alle obiezioni dei vitalisti anti-intellettualisti, di coloro che, come i Beach Boys, vorrebbero vivere solo di “good vibrations”, “buone vibrazioni”, il libro di Bellamy risponde con pacata acutezza: «Possiamo percepire il variare delle nostre emozioni solo attraverso le sfumature di un lessico quanto più ampio possibile. La gamma dei nostri sentimenti si esprime, per la nostra coscienza, nelle parole che arricchiscono il nostro vocabolario. Serve un lessico sviluppato per imparare a sentire, nelle emozioni, le sottili distinzioni tra “amare”, “stimare”, “apprezzare”, “ammirare”, “prediligere”, “adorare”, “voler bene”, “adulare”… La posta in gioco del lessico non è solo la precisione della parola: senza la diversità delle parole, non solo non potremmo comunicare in maniera corretta, ma saremmo anche certamente incapaci di riconoscere in noi la singolarità dei nostri stessi sentimenti». E ancora: «Quando “amare”, “stimare”, “apprezzare”, “ammirare” sono indistintamente sostituiti dal gergo giovanile “kiffer” (neologismo franco-arabo che significa “provare piacere” – ndr) non solo l’espressione perde la sua precisione, ma l’emozione perde la sua ricchezza. Non è la comunicazione, sono il cuore e lo sguardo che, incapaci di provare le sfumature e di percepire la singolarità, si restringono, si ripetono, e sono alla fine schiacciati dal peso dell’uniformità». Capirà chi avrebbe bisogno di capire? Mah.
Foto Ansa
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