Il sentiero tortuoso della speranza tra le macerie

Di Mattia Ferraresi
26 Novembre 2012
La terra non è fatta per tremare, eppure trema. Viaggio di un modenese nella sua regione squassata dal terremoto e interrogata da una contraddizione insanabile.

Anticipiamo un brano del libro Se anche la terra trema di Mattia Ferraresi con un racconto fotografico di Alice Caputo. Il libro è acquistabile su Itacalibri.it. Il libro è legato a un appuntamento della Cdo Emilia che, con lo stesso titolo del volume, è in programma giovedì 13 dicembre, ore 18.45 a Nonantola (MO). 

«Ci saranno pietre da raccogliere dopo un terremoto? Loro alla fine ci faranno cattedrali», così si chiudeva la lettera del Resto del Carlino. Emiliani incrollabili, emiliani che non tremano nonostante tutto, emiliani che vogliono rifiutare gli aiuti per rialzarsi da soli. L’orgoglio campanilistico è stata una delle più facili scorciatoie per non ammettere la totale impotenza di quell’eroe invincibile che è l’uomo davanti alle forze della natura. Sembra quasi che ci sia un sottile filo di vergogna nel mostrarsi così vulnerabili davanti all’Italia. Un giovane agricoltore intervistato dalla Gazzetta di Modena ha osservato: «Ci siamo trovati spiazzati perché siamo sempre stati noi quelli che andavano ad aiutare gli altri e adesso ci troviamo ad avere bisogno noi degli altri e questo ci lascia disarmati». Gli emiliani si sono forse sentiti come un Golia imbarazzato per aver perso contro il piccolo Davide. Lo slancio volontaristico è l’ultima arma che si può scagliare invano contro un evento naturale indomabile, e il simbolo di questo orgoglio è diventata la foto di una vetreria quasi interamente crollata con un cartello che si erge tra le rovine: «Ci siamo», e a seguire il numero di telefono per chiedere un preventivo, scalpo della vittoria contro la calamità. La cartellonistica post-terremoto è infinita e, a parte i commoventi ringraziamenti ai Vigili del Fuoco, evocano la medesima volontà di sconfiggere il terremoto: «Ci hai fatto tremare ma non ci hai spaventato», «Barcolliamo ma non molliamo », «Il terremoto chiama, noi rispondiamo… teniamo botta!», «Mirandola non s’inchina, risaliamo a bordo!», «Come può uno scoglio arginare il mare…».

Eppure non tutti hanno reagito con questo comprensibile slancio. C’è anche chi in quelle macerie non vede affatto la miracolosa rinascita delle cattedrali emiliane, ma un segno più drammatico che costringe a interrogarsi sul senso di quello che è successo: «Trent’anni per costruire, trenta secondi per vedere tutto distrutto», è il ritornello che risuona dai giorni delle scosse nella mente di don Franco Tonini, parroco di Concordia sulla Secchia. Concordia è il secondo paese più colpito dal sisma secondo l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Il centro storico è stato interamente evacuato e due persone sono rimaste sotto il mortifero abbraccio dei calcinacci. Don Franco vive in una casetta di legno più simile a un ripostiglio per gli attrezzi che a una casa. È lì che abita da quando il terremoto ha spazzato via in pochi secondi la canonica e la chiesa. Ha dedicato gli ultimi trent’anni all’edificazione della chiesa di Cristo, in tutti i sensi: ha raccolto offerte per ridare vita ai dipinti di quel tempio, per curarne le rifiniture, per rendere bella la casa del Signore. Insomma, la sua piccola cattedrale l’aveva già costruita prima del terremoto. «Per me si trattava di rendere gloria a Dio – spiega sventolando il ventaglio – lo facevo come un atto di culto, ma forse il Signore non ha gradito e ha voluto farmi capire che la Chiesa è fatta di persone e non di mattoni. Forse mi mancava quel passo di povertà e santità». A don Franco non è stata risparmiata la sofferenza e il Papa ha ricordato che nemmeno Gesù si è sottratto ai patimenti.

Il tendone del Pd per la Messa
Molti parrocchiani ricordano la sua omelia dopo la scossa del 29 maggio, all’ombra di un grande tendone: «Sapete di chi è questo tendone? È del Pd e lo usano per la Festa dell’Unità. E sapete chi l’ha montato? Un gruppo di musulmani. È proprio il caso di lasciar perdere tutti i pregiudizi che abbiamo». Secondo don Franco, una volta caduta la casa, la chiesa e i pregiudizi resta una sola cosa ancora in gioco: la fede. Davanti ai suoi parrocchiani, sotto quel tendone, il paragone con il Libro di Giobbe è perfettamente calzante. Dio, per mettere alla prova la fedeltà di Giobbe, gli sottrae i buoi, i cammelli e i servi (le cose), colpisce la sua abitazione con un colpo di vento (la casa) uccidendo così i suoi figli (le persone). La vicenda di Giobbe è drammaticamente attuale per tutti gli emiliani che hanno perduto la casa, le cose e a volte anche le persone care. La disperazione di chi ha perduto tutto in pochi secondi si trasforma, in questo passo della Bibbia, in una prova di fede: Giobbe si prostra a terra e dice: «Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò in grembo alla terra; il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore». È così che Giobbe, con estrema umiltà, ha guardato in faccia alla disgrazia della sua casa che crolla portandosi via tutto. Ecco il punto: «La sfida, per Giobbe e per tutti noi, sta nel ridire: “Sia benedetto il nome del Signore” con la stessa fede che avevamo prima del terremoto». E questo non oblitera l’afflizione, non è una candeggina che sbianca l’anima. A poche settimane di distanza don Franco non nasconde la disillusione, il senso di amarezza, soprattutto nei confronti dei suoi compaesani dai quali ha ricevuto ben pochi aiuti. Forse anche la fede, l’incrollabile roccia delle Scritture, non può più essere data per scontata. La rabbia e il risentimento verso ciò che ha distrutto il lavoro di una vita e la sensazione di solitudine non sono facilmente traducibili in un assioma religioso che risolva in un baleno ogni dubbio.

La solitudine dopo la solidarietà
«Che il Signore abbia dato e poi tolto è vero – dice don Franco – ma riuscire comunque a benedirlo non è più così semplice». La metabolizzazione di ciò che è accaduto passa per una strada tortuosa come quella che ha dovuto percorrere Giobbe. In questi passi la Bibbia presenta le stesse scorciatoie più o meno razionali in cui sono cadute, comprensibilmente, tante vittime del terremoto. A Giobbe, infatti, si presentano tre filosofi che illustrano sofismi per spiegare che una tale ingiustizia è stata riversata da Dio su un uomo giusto. La morale appuntata alla fine della storia è tanto edificante quanto inadeguata, e di solito è l’apripista dei buoni propositi: dopo il momento concitato della solidarietà ritorna il dominio della solitudine e del disinteresse. «Sinceramente non ho visto nessuna fratellanza. Ho avuto solidarietà da persone che venivano da fuori ma non dai miei parrocchiani. Un prete della zona ha detto durante l’omelia: “Bisognerebbe che io vi dessi da mangiare un’ostia di cuoio, così a forza di masticarla forse vi viene in mente la vostra durezza di cuore” ». Un’ostia di cuoio per ricordare che la fede non è una faccenda eterea, ma un pungolo nella carne. Lo diceva Emmanuel Mounier, santificando quella sofferenza che gli era famigliare: «È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce, delle tappe che si susseguono, aspettate quasi con calma, con sicurezza… Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne».

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