Il signor G. perde, Teresa vince. E Sofia dell’Olimpo
Ascoltando l’ultimo Cd di Gaber, La mia generazione ha perso, viene su un magone pieno di grandi ricordi, grandi nostalgie e grandi arrabbiature. Gaber, e con lui noi che apparteniamo alla sua generazione, non abbiamo raccolto granché dagli sforzi di tutta un’epoca, di uno slancio che sembrava inesauribile. La cosa opprimente, anche se cantata in modo accattivante come sempre, è la decrepitezza, l’odore di vecchiezza, di senilità rassegnata che pervade tutto il Cd. Davanti ad un mondo in cui non ci si riconosce più, l’ultima soddisfazione pare sia lo snobismo di chiamarsene grandemente fuori. In contemporanea all’ascolto di Gaber, mi sono trovata a leggere l’ultimo libro uscito su Madre Teresa di Calcutta. Un suo tipico guizzo di vita citato a metà dell’opera, dal titolo Madre Teresa, un volto di tenerezza (Mondadori, Oscar varia) sommerge fortunatamente tutta la sensazione di vecchiaia impotente da menestrello “critico” che non va più di moda: «i giovani oggi non vogliono tanto ascoltare quanto vedere, vedere l’amore all’opera, vedere la fede all’opera». Già, “la fede”. I menestrelli “critici” della nostra generazione partivano, e i reduci partono ancora, per puro postulato dall’esclusione a priori della “fede”. Ed è così che dopo il crollo di tutte le ideologie del secolo più nichilista e più carico di orrori, i menestrelli “critici”, si permettono di continuare a maledire l’unico fatto che resiste da più di una generazione, la Chiesa, e stornellano: «vedo la Chiesa che incalza più che mai: io vorrei che sprofondasse con tutti i Papi e i Giubilei». Le note di umana disperazione che Gaber ci canta paiono avere un degno contrappunto dalla Madre dei Poveri, cui Monsignor Follo dedica l’opera di cui sopra, il cui ricavato andrà per intero alle Figlie della Carità. Il parallelo tra il disperato rifiuto di un’epoca e l’incredibile positività che scaturisce dalla fede di colei che l’ingiustizia l’ha combattuta giorno per giorno, (non sfilando in corteo per piazze e strade di grandi città o dai palchi ben illuminati da migliaia di riflettori) meriterebbe indagini più approfondite. A Gaber che gorgheggia, con legittima nostalgia, sia chiaro, «L’appartenenza è assai più della salvezza personale, è la speranza di ogni uomo che sta male e non gli basta esser civile è quel qualcosa che si sente se fai parte di qualcosa che travolge ogni egoismo…» e che poi incalza «piano piano, il mio destino è sempre più andar verso me stesso e non trovar nessuno» oppure «e vedo un futuro senza più rimedio, una specie di massa senza l’individuo» e che con molto spirito se la prende col «Potere dei Più Buoni» tanto in voga oggi, andrebbe offerta la grande gioia di leggere alcune perle del libro, e non solo a lui, ma a tutti noi! A voi: «Conoscere il problema della povertà da un punto di vista intellettuale non significa comprenderlo. Non è leggendo, andando a fare una passeggiata nei bassifondi, rammaricandoci o ammirando la povertà che arriviamo a comprenderla e a scoprire ciò che essa ha di bene o di male. Dobbiamo tuffarci in essa, viverla, condividerla». Ancora: «Perché queste persone e non io? Quella persona raccolta nella fogna, perché c’è lei e non io?». Oppure: «Non dimenticherò mai il giorno in cui, camminando per una strada di Londra, vidi un uomo seduto, che sembrava terribilmente solo. Andai verso di lui, gli presi la mano e gliela strinsi. E lui esclamò: “Oh, dopo tanto tempo questa è la prima volta che sento il calore di una mano umana”. Poi il suo viso si illuminò. Era una persona diversa. Sentiva che c’era qualcuno che teneva a lui. Per la prima volta capii che un’azione così piccola poteva dare tanta gioia». Questa la dedicherei alle mamme che come me si industriano a non far mancare nulla ai loro adorati bambinetti e li rimpinzano di merendine, snack e televisione: «Nesuno di noi, credo, conosce la sofferenza della fame, ma un giorno me la insegnò una bambina. La trovai per strada e le lessi sul volto quella terribile fame che ho visto in tanti occhi. Senza farle domande le diedi un pezzo di pane e poi vidi che ne mangiava una briciola per volta. Le dissi “Mangia il pane”. La piccola mi guardò e rispose “Ho paura perché quando finirà io avrò fame di nuovo”». Ma per tutti echeggia quell’enunciato che il postulato razionalistico della generazione “che ha perso” si ostina a ritenere del tutto indegno della semplice citazione, la fede, e così, di menzogna in menzogna ci siamo costruiti la nostra disillusione di vecchi. Madre Teresa, invece, una tra i pochi giovani del nostro secolo, accanto al Papa, sotto la sua maschera di rughe, non ha a priori, solo certezze: «La nostra opera per essere buona e fruttuosa deve essere fondata sulla fede».
Carla Vites, Milano
Da qualche anno risiedo a Katarini, situato nella regione macedone della Grecia, che s’affaccia sullo stupendo golfo di Salonicco (Thessaloniki) e che guarda a sud verso il monte di tutti gli dèi, l’Olimpo. Qui ci si conosce un po’ tutti, ci si incontra quotidianamente, ci si aiuta nelle piccole e grandi cose. Tutti vanno in chiesa, nella chiesa ortodossa, anche i cattolici, come me, perché non c’è altra chiesa; una volta conosciuti non si fa più grande scandalo, ma non ti fanno fare la Comunione. Che cosa ha significato, per noi cattolici e per il popolo ortodosso il viaggio del Papa in Grecia? Direi qualcosa di dolorosamente misterioso, come si può capire da qualche episodio accaduto da quando la visita è stata annunciata. Un giorno Sofia, la mia padrona di casa e mia amica, mi invita ad andare a casa sua per un momento di preghiera insieme agli altri componenti della sua famiglia e a un sacerdote. Metto la gonna perché so che a Sofia farebbe molto piacere se fossi attenta a questo particolare per le donne di Grecia niente affatto irrilevante. Salgo a casa sua e nel vedermi in gonna la mia amica sorride e mi abbraccia per ringraziarmi dell’attenzione avuta. Dentro è tutto pronto: il piccolo altare, le candele, l’incenso; giunge il sacerdote. Lo salutiamo e aspettiamo la sua prima benedizione; si accorge della mia presenza (mi conosce e sa che sono cattolica), così si avvicina ad ognuna delle presenti benedicendole. Arrivato il mio turno abbassa lo sguardo e va oltre. Accuso il colpo ma non abbasso la testa, il mio sguardo incrocia quello della mia amica, la guardo assicurandole che va tutto bene. Si procede. Sull’altare è stato messo un foglio con i nomi delle persone presenti, perché il sacerdote pronunzi il nome di ognuno, benedicendolo e affidandolo al Signore. Aspetto sperando di ricevere ma, con mio grande dolore, mi accorgo che più volte il sacerdote ha pronunziato il nome di tutte tranne il mio. Questa volta abbasso lo sguardo ferita e imbarazzata perché mi accorgo del disagio visibile sul volto delle presenti. Finito il breve momento liturgico il sacerdote porge un invito esplicito: «Preghiamo perché il Signore ci liberi dalla venuta del Papa e ci liberi dal male e dal grande pericolo che questa visita è per la nostra chiesa». L’imbarazzo è grande e tutte abbassano la testa, tranne io che, lo guardo fisso negli occhi e la rabbia, che intanto ha preso il sopravvento, sta per farmi esplodere; ma incrocio lo sguardo dispiaciutissimo di Sofia e il mio cuore si trova a domandare misericordia per me, per lui e per tutti quei volti presenti. Terminato tutto saluto la mia amica che mi chiede scusa e mi ringrazia della mia presenza. Due settimane dopo questo episodio esco con la mia famiglia per le strade del centro paese; l’attenzione di mio marito è catturata da manifesti funebri affissi su diversi pilastri e sui muri. Chiedo a mio marito Nikolas, greco e ortodosso, che cosa ci sia scritto, e mi avvicino leggendo: «No alla venuta del diavolo nella nostra terra». Frastornata continuo a leggere tutte le cattiverie e a questo punto la mia rabbia esplode. Inizio a strappare alcuni manifesti finché mio marito mi calma dicendomi che si tratta di estremisti. Passano i giorni e mi accorgo che le persone che conosco, vedendomi per strada mi chiedono con molta semplicità se sono contenta della visita del Papa. Arriva il giorno fatidico e tutto procede bene; il mio cuore piange di commozione nel vedere in Tv il Papa che con grandissima umiltà chiede perdono di tutti i peccati commessi dalla Chiesa cattolica. È sicuramente questo il gesto più grande, che rompe il ghiaccio durato dieci lunghi secoli, spalancando il cuore di ognuno, perché la strada della riconciliazione, Dio permettendo, è tracciata.
Rosaria Ierinò, Katarini, Grecia
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