
Il tramonto della vita al Marigold Hotel
Alcune cose buone, molte mediocri. Le cose migliori sono nella prova corale degli attori, grandi professionisti, davvero efficaci. Tom Wilkinson è un potente giudice con un passato con cui non ha mai fatto i conti fino in fondo, Bill Nighy e Penelope Wilton sono una coppia attempata di sposi in crisi, Celia Imrie e Ronald Pickup sono in cerca di emozioni forti e forse dell’amore della vita; Judi Dench deve ancora superare la morte recente del marito. Grandi attori britannici da far venire invidia a qualsiasi collega e ben diretti da John Madden, regista diseguale (suo il buon Il debito ma anche Il mandolino del capitano Corelli e di Shakespeare in Love) che ha tanti difetti ma ha sempre curato moltissimo la recitazione dei propri attori. Il film però ha anche notevoli problemi, a partire proprio dalla regia che cade nella tentazione del calligrafismo e dell’illustrazione. La confezione è di livello ma le ambientazioni indiane sono infatti da cartolina e nelle poche svolte narrative del film, Madden cerca cinematograficamente la strada più ovvia e meno interessante. Come quando si deve affrontare il cuore della vicenda dolorosa che sta dietro al personaggio di Wilkinson e che Madden rievoca con un lungo, patetico monologo dello stesso protagonista.
Questo è un problema per lo spettatore che in un film di due ore e passa si trova di fronte a tante scene analoghe: non ci si può emozionare di fronte a un discorso, soprattutto se la sceneggiatura appare schematica e prevedibile. E lo stesso dicasi della storia d’amore tra Dench e Nighy e le velleità in termini affettivi della Imrie e di Pickup. La sceneggiatura di Ol Parker, lo stesso di Imagine Me & You, ha il vizio di essere schematica per cui ogni personaggio incarna un tipo o una situazione. La vedova con problemi, la coppia in crisi, l’avvocato con il suo dolore, la vecchia malata (Maggie Smith la migliore del cast) arcigna e con tanti pregiudizi. Ma non sempre il tipo umano raccontato diventa una storia di vita e un’emozione nonostante le intenzioni. Certo, non giova al film il ritmo eccessivamente compassato che Madden impone alla vicenda e qua e là la retorica pare prendere il sopravvento: non convince ad esempio la caratterizzazione del ragazzo che gestisce l’hotel (è Dev Patel, il protagonista di The Millionaire), troppo sopra le righe e alla prese con una storia d’amore risaputa e osteggiata dalla madre. Non convince nemmeno la chiusura della storia con al centro il personaggio di Wilkinson, sul finale più patetico che commovente e neanche la superficialità con cui si toccano certi rapporti come la crisi della coppia Nighy/Wilton che viene liquidata in quattro e quattr’otto. Adatto probabilmente per un pubblico di non giovanissimi che apprezzerà la prova attoriale e la sensibilità con cui gli interpreti si sono adattati al ruolo, il film parte da inquietudini esistenziali vere come la paura della morte, la solitudine, la malattia e la speranza di vivere una vita piena per quanto per pochi anni, che una regia superficiale e una sceneggiatura rigida non riescono a trasformare in pagine commoventi di vita reale.
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