
Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di dicembre 2021 di Tempi.
Esiste dal 1984 esercitando la difficile arte di connettere le università e si chiama Centro di Informazione sulla Mobilità e le Equivalenze Accademiche. Fa un sacco di cose, tutte importanti e difficili da spiegare come sono le cose che contano nella vita, quel tipo di cose che si spiegano faticosamente con la teoria, ma che si raccontano facile con la pratica.
In pratica, in breve: per capire Cimea, basta vedere come brillano gli occhi dei rifugiati senza documenti che grazie a loro hanno potuto continuare a studiare. Arrivano qui come moderni Mattia Pascal – senza identità, senza dignità – dopo un viaggio infernale per raggiungere i cancelli di un paradiso che non li accoglie perché non hanno documenti. Sono bloccati in un limbo e stanno lì, senza poter studiare né lavorare, contro un muro. Che Cimea sa sfondare. In modo oggettivo verifica le competenze delle persone e fornisce a chi dimostra di averle un Pass Accademico che permette di continuare gli studi, un progetto che è il primo al mondo e dà risultati verificabili. Ed è stupendo (infatti ha ispirato progetti simili in altri paesi).
Per arrivare a capire come si sfonda quel muro bisogna però prendere la rincorsa da lontano, dal buio sottoscala di una villetta d’inizio Novecento con i soffitti a cassettoni in via XXI Aprile a Roma. Comincia tutto là sotto, come in un romanzo di Dickens, tra scaffali pieni di faldoni, scatole marroni e fascicoli tenuti assieme da cordini, quasi fossero pacchetti di dolciumi, solo che al posto di pasticcini dentro ci sono gli statuti di tutte le università italiane dal 1933.
Laggiù lavorava Luca Lantero, 43 anni, l’attuale direttore di Cimea. Faceva uno stage dopo la laurea in legge e dopo aver sbrigato i compiti si trovava spesso davanti a molto tempo libero e un’alternativa: giocare a solitario al pc o leggersi gli statuti? Scelse la seconda. E scoprì un faldone molto grosso con la scritta “Università a rischio”. «Quelle fasulle, cioè», spiega a Tempi Lantero. «Quando finisco lo stage nel 2004, in Università Cattolica mi offrono un posto in amministrazione, ma preferisco continuare in Cimea. Per dieci anni valuto titoli di studio e rispondo a tutti i quesiti che arrivano. Anche se può sembrare arido, e spesso lo era, sono grato a quelle domande perché mi hanno costretto a indagare e informarmi su come lavoravano all’estero. Propongo al direttore di allora, che mi ha lasciato sempre molta libertà, di realizzare progetti con le reti europee dei centri nazionali di informazione sul riconoscimento dei titoli di studio (Enic del Consiglio d’Europa e Naric della Commissione europea)».
I risultati più interessanti di quegli anni sono il manuale di orientamento nel sistema universitario cinese e soprattutto la ricerca sulle “fabbriche di titoli”. «Chi non riesce a ottenere l’abilitazione nel proprio paese, va in un paese dove è più facile ottenerla e poi richiede il riconoscimento in Italia. Oggi grazie a questo lavoro è molto difficile farla franca. Negli anni abbiamo impostato un metodo di valutazione dei titoli che ci ha fatto diventare “cacciatori delle università fasulle” e sappiamo riconoscere abbastanza in fretta se un titolo è autentico oppure se le procedure di accreditamento sono false. Nel libro Lauree 30 e frode abbiamo analizzato il fenomeno e i suoi danni: quello economico, quello alla fiducia che è la base della vita democratica e quello ai sistemi educativi che vedono inquinato il valore dei titoli. Nelle professioni che riguardano salute e sicurezza come medici, ingegneri o architetti, la minaccia è direttamente alla vita delle persone. Insomma, facciamo fatica a considerare i titoli di studio come semplici “pezzi di carta”. Per noi sono “pezzi di vita”».
Il salto di qualità avviene con i progetti realizzati assieme a molte istituzioni secondo strategie win-win per creare possibilità per tutti i partner. Oggi Cimea aiuta a creare i centri di altri paesi. Racconta il direttore: «A volte ci chiedono perché lo facciamo, non rischiamo di ridurre il nostro “mercato”? Teoricamente sì, praticamente no. Se le mie competenze sono condivise, gli altri assorbono parte del lavoro e possiamo concentrarci su progetti di sviluppo comune. È un tipo di inclusività utile a tutto il sistema. Siamo stati “costretti” a crescere anche numericamente. Alle prime sostituzioni di maternità abbiamo trovato giovani capaci che poi ho voluto assumere, quindi abbiamo dovuto espanderci. Oggi siamo in 35 con 22 competenze linguistiche e siamo considerati un’eccellenza tra i 5 centri migliori al mondo. Siamo il primo in Europa e l’unico non americano riconosciuto negli Stati Uniti, facciamo supporto tecnico a tutte le reti Enic-Naric. Oggi rispondiamo a una qualunque richiesta da qualunque parte del mondo in quindici giorni, quando una volta servivano mesi, e forniamo il certificato su blockchain per gli esiti positivi. Per gli esiti negativi forniamo risposte motivate».
Cimea si rivela una risorsa nella crisi dei migranti nel 2013. Dopo aver superato il deserto, la violenza e il mare, molti rifugiati si trovano a sbattere contro un muro burocratico impossibile da superare senza documenti. Eppure sono qualificati. Come si verificano le loro competenze? «Grazie al nostro network internazionale e alla conoscenza dei sistemi abbiamo sviluppato una metodologia oggettiva per fare queste valutazioni: interviste, controlli incrociati che a volte diventano vere e proprie indagini. Oggi abbiamo il 75 per cento di richieste accettate e il rifugiato può rimettersi a studiare, riprendendo il filo della sua vita. Il resto è rifiutato perché non ci sono qualifiche oppure le qualifiche sono di università fasulle».
Le crisi economiche, i migranti, la pandemia: i primi anni Venti del secolo sono stati ritmati da crisi sempre più devastanti e globali che hanno fatto esplodere l’evidenza che nessuno può vivere da solo. Conoscenze come quelle di Cimea sono utili a costruire un futuro armonizzato tra i diversi sistemi educativi. «Il nostro futuro è nello sviluppo della formazione superiore», dice Lantero. «Fino a poco tempo fa le ricerche guardavano agli aspetti pedagogici. Oggi il mondo cambiato dalla pandemia richiede una riflessione sugli aspetti sistemici, utili alle strategie di internazionalizzazione delle università (nel creare i percorsi congiunti, per esempio, oppure nell’armonizzare sistemi educativi). Rendiamo possibile la connessione tra università e le aiutiamo a focalizzare le strategie di internazionalizzazione, a modulare la mobilità in tempo di pandemia e a condividere le conoscenze a distanza».
Ci sono ancora molti muri da abbattere nel nostro futuro.
Foto da rawpixel.com[/vc_column_text]
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