Il vero potere si misura in Generali

Unicredit ha perso in Borsa l’intero valore apportato nella fusione da Capitalia, e molti hanno scritto della rottura dell’incantesimo che per anni aveva accompagnato il più dinamico banchiere italiano nella sua lunga parabola di crescita, dal Credito Italiano in avanti. È spettacolare come a volte il provincialismo dei nostri media sappia abolire quanto avviene in tutto il mondo per concentrarsi nel solo orticello italiano. Unicredit ha pagato, oggettivamente, quanto la sua banca d’impresa aveva fatto operando in derivati con piccole e medie aziende fra il 2001 e il 2005. E ciò è avvenuto solo grazie alla crisi dei mutui subprime iniziata ad agosto sui mercati americani. Ma il contesto nel quale leggere il fenomeno è la crisi che fa saltare le teste (dopo mesi di vane rassicurazioni alle quali i mercati hanno fatto bene a non credere) ai vertici di gruppi di operatività mondiale come Citigroup, Merril Lynch, Barclays e via dicendo. Unicredit, peraltro, resta solidissima, a differenza di quei gruppi che operano svalutazioni contabili per miliardi.
No, Alessandro Profumo non è il male, come infatti è stato costretto a dichiarare a un certo punto. L’entusiasmo con il quale alcuni media hanno sottolineato i cali di Unicredit sul mercato mal si concilia con il silenzio generalizzato mantenuto dalle stesse testate su ciò che ne è stato all’origine, dunque dice poco dell’amore per i risparmiatori e le imprese che improvvisamente avrebbe contagiato l’informazione italiana. La dice invece lunga sulle tensioni che attraversano palpabilmente l’intreccio centrale del potere italiano, quello vero, cioè quello che sulle scelte future e strategiche di Generali oppone la Mediobanca di Cesare Geronzi con l’Unicredit di Profumo azionista di riferimento alla Banca Intesa del professor Giovanni Bazoli. La soluzione migliore, per Mediobanca e per la stessa Generali, sulla carta e per assumere maggior massa critica, sarebbe una bella integrazione. Ma, naturalmente, ciò che è buono sulla carta non è affatto detto che appartenga davvero al novero delle cose possibili. E, in questo caso, a impedirlo è proprio la dialettica – se vogliamo essere buoni – o la contrapposizione – se vogliamo essere cattivi – tra le due maggiori banche italiane, frutto del consolidamento del settore del credito nel nostro paese.
Il braccio di ferro che per mesi ha impedito ai due soci bancari di individuare un nuovo amministratore delegato nella Telecom Italia del post Tronchetti Provera è la stessa prova di forza che da mesi riaffiora carsicamente in Rcs, e che ha consentito in pochi giorni di dare titoloni e paginate intere alla lettera di osservazioni sulla governance di Generali inviata da un fondo d’investimenti straniero, che del Leone detiene una quota piccolissima e vanta un’opzione altrettanto trascurabile nel capitale di Mediobanca. Chi scrive vorrebbe credere per davvero che l’iniziativa del fondo Algebris apra anche nel nostro paese la stagione di un nuovo protagonismo dei fondi, sin qui dormienti e pigri di fronte a ciò che passa sotto il naso degli azionisti di minoranza nelle assemblee societarie. In Banca d’Italia il governatore Mario Draghi lo vorrebbe sicuramente, ma da solo non può cambiare certo gli equilibri di potere reale formatisi sul campo. Il confronto tra Unicredit e Intesa continuerà a essere lo spartito obbligato del malcerto equilibrio finanziario italiano, ai più alti livelli. Temo che i suoi sviluppi ed esiti conteranno più di chi siede oggi o siederà domani a Palazzo Chigi.

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