
Il vero problema dello schiaffo di papa Francesco

Quando si sarà ritirata tutta la marea di sarcastici commenti, velenose frecciate, malevole insinuazioni a proposito dell’incidente del 31 dicembre che ha visto papa Francesco liberarsi con uno schiaffo del braccio di una donna che lo stava strattonando, sull’arenile resterà soltanto una questione seria: quella delle conseguenze dell’eccessiva accessibilità del sacro nell’epoca dei social media globali e della moltiplicazione e diffusione tendenzialmente infinite delle immagini.
Il cattolico consapevole della sua fede non si scandalizza dell’accaduto: sa bene che il metodo dell’incarnazione, che connota il fatto cristiano, implica l’assunzione dell’umano da parte del divino anche nelle sue debolezze e nelle sue contraddizioni. Gesù Cristo fu esente dal peccato, ma non da sentimenti e comportamenti molto umani e poco divini come l’ira, la tristezza, il pianto, l’indignazione, eccetera.
LE CONSEGUENZE DELL’INCARNAZIONE
Ricordo un’intervista di alcuni fa a Claire Ly, cambogiana sopravvissuta ai campi della morte di Pol Pot che si era convertita dal buddhismo al cristianesimo durante la prigionia. Mi disse:
«Buddha è il maestro che mostra la strada verso il Nirvana, ma soltanto lui è arrivato alla saggezza suprema. Solo lui è stato capace di vivere senza mai piangere, senza mai provare rabbia. Questo lo rende lontano, un modello inarrivabile. Invece Gesù è uno che piange, che si arrabbia: l’ho sentito vicino e simile a me. (…) La fede cristiana ha questo in più di qualunque altra fede religiosa: che è Dio che si abbassa fino a noi, si colloca alla nostra portata».
Quando da Cristo si passa ai suoi discepoli di ieri e di oggi, l’incarnazione comporta non solo la persistenza delle passioni umane, ma anche della facilità al peccato che è propria dell’uomo dopo la Caduta. Tutto questo però non è sufficiente per un giudizio sulla situazione che si è creata con la rivoluzione tecnologica dei media elettronici e la conseguente creazione dei social media.
IL PAPA E LA COMUNICAZIONE
Papa Francesco ha proseguito e intensificato un processo che era già iniziato al tempo di Giovanni XXIII e che aveva conosciuto un’accelerazione fortissima sotto Giovanni Paolo II: quello della trasformazione della persona del sommo pontefice da figura sacrale e inaccessibile a pastore disponibile ai comuni rapporti umani e a personaggio che non teme di misurarsi col mondo dei mass-media e con le logiche della comunicazione spettacolarizzata.
La crescita esponenziale dei contatti coi fedeli – con le masse come coi singoli – è cominciata con papa Wojtyla; il primo tweet di un pontefice nella storia è stato opera di papa Ratzinger. Francesco prosegue, con la sua personalità e il suo stile personalissimo, su una strada aperta dai predecessori. Il problema è che nel frattempo alcune cose sono cambiate, e le loro potenziali o effettive (come nel caso del 31 dicembre) conseguenze rimettono in discussione l’indirizzo che ha preso piede nell’ultimo mezzo secolo.
MILLE MILIARDI DI FOTO L’ANNO
Il primo equivoco da sciogliere è che l’accresciuta accessibilità della persona del papa sia un fatto univoco. In realtà si tratta di due fatti distinti: sono cresciuti quantitativamente i rapporti diretti, implicanti tutta la fisicità della persona del papa, con le persone comuni (credenti e non credenti o fedeli di altre religioni) e con la realtà secolare; e nello stesso tempo è cresciuta in misura incalcolabile l’esposizione dell’immagine del papa, la trasmissione e la diffusione del papa sotto forma di icona. I problemi nascono su questo secondo versante.
Uno degli aspetti del “cambiamento d’epoca” che viene spesso evocato, senza precisare di cosa si tratti, è certamente il seguente: attualmente vengono scattate mille miliardi di fotografie all’anno, cioè viene prodotto in un anno un quantitativo di immagini superiore a quello prodotto da tutta l’umanità nel corso della sua storia. Aggiungete a queste foto i filmati e moltiplicate il tutto per il numero di visualizzazioni che internet e le altre tecnologie della comunicazione elettronica rendono possibili, e avrete una vaga idea del territorio sconosciuto nel quale l’umanità si sta avventurando.
QUANTO VALE UN’IMMAGINE?
Questa novità senza precedenti non può non avere un influsso anche su tutto ciò che tradizionalmente è considerato sacro e degno di rispetto reverenziale, indisponibile perché relativo al divino e al soprannaturale. Secondo Daniel Boorstin, che scriveva quasi sessant’anni fa, la prima conseguenza della proliferazione delle immagini è la loro svalutazione simbolica, che sarebbe cominciata con la «rivoluzione grafica» all’inizio dell’Ottocento che rese possibile la facile riproduzione di immagini e quindi fornì alle masse un accesso continuo ai simboli e alle icone della loro cultura.
Neil Postman riassume così la riflessione in proposito che Boorstin sviluppa nel suo libro The Image:
«Attraverso la stampa, le litografie, le fotografie e, più tardi, il cinema e la televisione, i simboli religiosi e nazionali divennero banalità generatrici d’indifferenza (…). Per rispondere a coloro che credono che l’impatto emotivo di una immagine sacra sia eternamente lo stesso, Boorstin ci ricorda che prima della rivoluzione grafica la maggior parte della gente vedeva in sostanza poche immagini: i quadri di Gesù e della Madonna potevano essere visti solo di rado fuori dalle chiese, e quelli dei grandi maestri nazionali solo nelle case dei ricchi o nei palazzi del governo. (…) Le immagini dunque non erano parte preponderante dell’ambiente, e questa loro rarità contribuiva al loro potere speciale. Boorstin sostiene che quando cambiò il grado di accessibilità, cambiò per forza anche l’esperienza dell’incontro con una immagine; cioè la sua importanza diminuì. Si dice che un’immagine valga mille parole. Ma mille immagini, specialmente se ripetono lo stesso oggetto, possono non avere assolutamente alcun valore» (N. Postman, Technopoly, pp. 152-53).
Chissà cosa scriverebbe Boorstin oggi… La tradizione di molte diocesi cattoliche sembra dare ragione all’intuizione del saggista americano di origini ebraiche secondo cui il facile accesso alle immagini le svuoterebbe del loro significato: nella mia diocesi di nascita di Forlì, per esempio, era tradizione esporre ala vista dei fedeli l’immagine miracolosa della Madonna patrona della città, scampata a un rovinoso incendio nel 1428, solo in occasione della festa e di poche altre importanti celebrazioni.
L’AMPLIFICAZIONE DEI SIMBOLI
Ma anche se il discorso di Boorstin ha una sua attendibilità generale, il caso della sovraesposizione mediatica del papa nell’era della comunicazione elettronica e dei social media mi sembra un po’ diverso. Il problema non è tanto la banalizzazione della figura del papa, quanto le inattese conseguenze perverse della scelta comunicativa di far coincidere (magari non intenzionalmente, ma di fatto) la persona del papa con gesti simbolici debitamente amplificati attraverso le tecnologie oggi disponibili.
Finché i gesti esprimono i contenuti dell’amore cristiano (il papa che lava i piedi ai detenuti, che mangia alla stessa mensa di migranti e profughi, che bacia i piedi dei potenti per scongiurarli di fare pace, che chiama al telefono persone comuni che hanno bisogno di vicinanza umana), il risultato della loro diffusione virale è l’esaltazione della figura del papa al di là e al di sopra del valore intrinseco dei gesti compiuti, una magnificazione francamente sproporzionata all’entità effettiva degli atti. Ma non è questo il principale problema. I guai nascono nel caso di incidenti come quello avvenuto il 31 dicembre, perché allora a uscire amplificata al di là di ogni proporzione è la negatività dell’evento.
UNA MACCHIA SULLA CRAVATTA
E questo accade non tanto per la comprovata malevolenza dei “nemici del papa” interessati a fargli cattiva pubblicità, ma per le caratteristiche intrinseche delle tecnologie della comunicazione contemporanea: il filmato dello schiaffetto di Francesco in piazza San Pietro è destinato a circolare per sempre sulla rete, a moltiplicarsi nelle varianti di montaggi e manipolazioni di ogni genere, a diventare un tratto permanente dell’icona di papa Francesco nell’immaginario collettivo. È lo stesso principio della macchia sulla cravatta: se indossate una cravatta magnifica, e a un certo punto la sporcate con un piccolissimo schizzo di sugo, tutti noteranno e faranno notare la macchia, nessuno noterà più la bellezza della cravatta.
Fra il serio e il faceto, alcuni hanno suggerito che per evitare altri inconvenienti e per risparmiarsi fisicamente il papa torni a utilizzare la sedia gestatoria, che veniva usata in passato proprio per rendere visibile il pontefice al maggior numero possibile di persone che accorrevano in piazza San Pietro o dentro alla basilica, al tempo in cui non esistevano le dirette televisive né internet. Ma il problema non è il contatto fisico del papa coi fedeli, non è la carnalità del cristianesimo che lo espone al pericolo della dissacrazione. Il pericolo sta nel sopravvento dell’immagine nell’epoca in cui la natura propria delle tecnologie della comunicazione estremizza le percezioni, in positivo ma ancor più in negativo.
I nostri antenati, che si sono accapigliati per secoli sulla questione dell’inclusione o l’esclusione delle immagini dal culto, non erano per niente dei sempliciotti. Oggi però più che il pericolo dell’idolatria è da temere quello del declassamento dei simboli del sacro a profanità.
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