
Il virus della retorica

Caro direttore, che sia un periodo complesso ce ne siamo un po’ accorti tutti e non solo per le limitazioni alle solite abitudini: di questi tempi oltre a rinunciare alla libera circolazione stiamo anche assistendo alla retorica di quante cose si possono fare in questa quarantena abitativa. Il tutto come sempre condito da qualche laica devozione di ringraziamento al virus. Mah! Ho sempre faticato a dire grazie alle cose ingiuste.
L’impressione è che nei momenti più complessi si evidenzi ancora di più il sistema di pensiero che abitualmente usiamo. E oggi è tutto un fluire di retorica sublime, sulla fortuna di poter stare in casa, sulla bellezza delle lezioni on line, sugli abbracci che verranno. Ci stiamo preparando ad una vita a metà tra l’esorcismo e la banalità, ben sintetizzate nell’“andrà tutto bene”. In fondo lo sappiamo che né andrà tutto bene, né bene ci sta già andando ora.
Amici vicini e lontani sono stati preda di questo virus, noi stessi viviamo bardati da mascherine carnevalesche per paura di cadere nella trappola. Eppure con qualche arcobaleno in più, chissà con quale formula magica, dovrebbe tutto andare bene. È evidente la retorica.
Coloriamo cartelloni, cantiamo dai balconi: per carità cose bellissime, i giochi on line in case diverse allo stesso tempo con la stessa merenda sacrosante passioni di chi vuole ammazzare il tempo, ma lo sappiamo bene che non serviranno nella lotta finale. Non serviranno a combattere il virus né a cambiarci la vita.
Viviamo già, sapendo che bene tutto non andrà. Non andrà nel senso che le storie terrene non hanno tutte un lieto fine nel loro dispiegarsi: questo succedeva anche prima del Covid-19, prima ancora della tecnologia a cui siamo abituati, prima ancora di qualunque tempo. E continuerà così, anche se i cartelloni raddoppieranno, la connessione sarà più veloce, i giochi saranno più interattivi. Le cose non vanno sempre come speriamo, e come speravamo non andava nemmeno prima del virus. Al lavoro non andava sempre come avremmo voluto, col vicino non andava sempre a tarallucci e vino, con l’amico non andava sempre alla Bud e Terence, nella vita non andava sempre, talvolta non andava proprio. Non si capisce perché col virus invece dovrebbe andare bene. Perché? Per i colori pastello? Per le stories sulle zoomate di gruppo? Dai.
E perché allora continuiamo a dirci che questa crisi è un’opportunità, un’occasione per stare di più a casa e bla bla bla? Lo facciamo tutti, perché questa retorica, queste attività che “salveranno” il mondo, sono il nostro modo di esorcizzare la paura. E così per darci un senso di ottimismo, ci raccontiamo che la crisi è un grande opportunità. Vero, a una condizione non proprio marginale. La crisi è un’opportunità come tutte le altre vicissitudini della vita, né più né meno. Sono opportunità la guerra come la vacanza al mare, le ferie come lo smart working, ma ad una condizione. Perché siano opportunità dobbiamo vedere e dirci che la realtà “a sé” non ha opportunità, se non nel nesso che c‘è tra essa e il mio cammino di vita. È in questo nesso l’opportunità. Potremmo chiamarlo in tanti modi questo nesso, questa chiave di lettura. È la chiave di lettura che coglie le vicissitudini come opportunità, non le vicissitudini in sé si dispiegano come opportunità.
Perché, se la crisi fosse di per sé un’opportunià, allora vorrebbe dire che le vacanze sono tempo perso! Non c’è vento favorevole per chi non sa dove andare, diceva quel tale. Il pezzo forte della frase non è il vento, sia esso favorevole o contrario. Il pezzo forte è il saper dove andare. È il saper dove guardare che fa della crisi, come delle vacanze, come delle ricchezza, come di tutto, l’opportunità. Il virus peggiore è quello di condannarci alla retorica degli slogan, a raccontarci che è bella la crisi. Se fosse bella, perché mai l’avremmo chiamata crisi?
Di tutto questo tempo possiamo e dobbiamo trattenere la stessa sostanza che tratteniamo in ogni istante dell’esistenza. Che della tumultuosa nostra esistenza non ne siamo i padroni.
Peppino Monteduro
Foto Ansa
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