Impastati come Andrea e la sua amata Viola, insieme per sempre

Di Fabio Cavallari
01 Ottobre 2024
Tutti vogliono l’eternità, la vita. Ma l’eternità deve fare i conti con la morte, altrimenti è un gioco per scienziati, la pretesa folle del superomismo
Viola
(Foto di Sheila C/Usplash)

Il problema di tutti è il destino, l’eternità. Il dilemma non esclude nessuno. Alcuni adombrano il quesito, tentano di occultarlo. Anche questo fa parte della vita, non serve strabuzzare gli occhi o puntare il dito. L’eternità deve fare i conti con la morte, altrimenti è un gioco per scienziati, la pretesa folle del superomismo. Tutti vogliono l’eternità, la vita. L’uomo vuole vivere nel presente ma nel suo essere alberga l’anelito al “per sempre”. È un desiderio che dà forza al cammino, fuoco all’invocazione, ma che allo stesso tempo spaventa, inquieta. «Non siamo fatti per morire, ma per nascere», scriveva Hannah Arendt.

Nessuno pianta un gelsomino, una camelia, un pino, solamente per il piacere dell’imminente.

Una serra lungo il fiume

Andrea continua a coltivare, si è costruito una serra lungo il fiume. Oggi è vecchio, un po’ ricurvo, ma continua a curare le piante. Ha una bella casa, le pareti pitturate di fresco, quadri e sculture nel soggiorno. È troppo grande quell’abitazione per lui. Fino a quando c’era la moglie, tutto era diverso. Ogni spazio era vissuto, aveva un senso. Lei riempiva con il profumo, con la voce, con il corpo. Poi, la malattia lentamente l’ha divorata.

Andrea per orgoglio ha cercato di reggere l’urto, di sfidare la vita. I vecchi amici, la pesca, il volontariato. Tutto serviva a uscire da un dolore impossibile da sedare. La sua sposa lo aveva abbandonato. All’inizio della malattia, prendendolo in disparte gli aveva sussurrato: «Non mi lasciare. Mai». E lui è diventato la sua ombra. Giorno dopo giorno. Sino all’ultimo. E poi? Quanto valgono le parole? L’impegno, la determinazione, la cura? Tutto. Nonostante non siamo noi a governare la fine. Ma fintanto che c’è vita, ogni parola è roccia, pane, corpo. 

Viola, il suo nome. Come il fiore

Adesso, tornando a casa di sera, gli capita di chiamarla, di preparare la tavola per due. Poi scuote la testa e una lacrima scende sul viso ruvido, segnato. Viola, il suo nome. Come il fiore. Andrea ne ha piantate molte dietro casa, dove il sole non brucia la terra.

Non si è rivolto a Dio, «non l’ho mai fatto in tutta la mia vita, ora che ho bisogno, che mi sento in debito, come faccio a chiedere aiuto? Sarebbe presuntuoso. Non dovrei pregare per me. Dovrei farlo per Dio». Forse Andrea lo ha fatto, forse ha solo guardato il cielo ringraziando per quelle viole. Solo alzando lo sguardo può ritrovarla. Ha imparato che «l’amore è sempre amore per il nome», come ripete Massimo Recalcati. 

Oggi Andrea ha una baracca di legno sulla sponda del fiume. Cresce fiori, taglia piante, fa innesti. Ogni albero che pianta è un frutto del destino. Abita sempre meno la sua casa, come se dentro quelle mura smarrisse la dritta. Dorme, prepara la colazione e poi corre dai suoi fiori. Annaffia, toglie le erbacce, ogni tanto controlla le viole, piantate vicino alla riva. I suoi gesti non sono un antidoto alla memoria, anzi è proprio dentro il ricordo, nella passione per la sua amata, nel desiderio di riabbracciarla, che la vita ha riconquistato senso. Piantare alberi costringe a guardare oltre. Ci vuole cura e dedizione perché la pianta attecchisca, superi i primi mesi di vita, sconfigga freddo e maltempo. Quando il tronco sarà solido e le radici avranno attecchito però, la morte non farà più paura. 

Indietro non si torna

Nell’ottobre del 1997 don Luigi Giussani scrive un libro, Lettere di fede e di amicizia ad Angelo Majo, contenente alcune delle lettere, intime e confidenziali, rivolte all’amico. In una di queste, nel 1946, ormai prossimo al sacerdozio, gli scrisse: «Bisogna essere il più possibile uguali, identici, uniti e impastati insieme, aderenti l’uno all’altro». Impressiona quel verbo usato con tanto cura: “impastare”.

È straordinario perché simbolicamente, ma anche concretamente, offre la visione di qualcosa che prima era singolare, unico, ma che nell’amalgama con qualcosa di altrettanto singolare e unico diventa un nuovo “(s)oggetto” irripetibile, irriducibile, appunto singolare. Un verbo di cui non esiste il contrario. Anche “dividere” non è all’altezza, perché rimane teorico. Il pane non torna più ad essere farina, acqua, lievito e sale. Non potrà mai più ritornare. È impastato. Come Andrea e Viola. 

Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di settembre 2024 di Tempi. Il contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.


Disclaimer: grazie al programma di affiliazione Amazon, Tempi ottiene una piccola percentuale dei ricavi da acquisti idonei effettuati su amazon.it attraverso i link pubblicati in questa pagina, senza alcun sovrapprezzo per i lettori.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.