In America c’è ancora un eroe. Si chiama John McCain

Di Federico Leoni
26 Luglio 2017
Ritratto monumentale dell'ex pilota della Marina senatore dell’Arizona che non rinuncia alle sue battaglie nonostante la diagnosi di tumore al cervello

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Una volta, nel corso di un appuntamento elettorale, un giovane attivista chiese a John McCain se non ritenesse di essere troppo vecchio per fare il presidente. Il senatore rispose così: «Grazie per la domanda, piccolo stronzo». Giubilo. Basterebbe questo aneddoto per spiegare le ragioni della mia ammirazione per John Sidney McCain III. McCain non è vecchio, non lo sarà mai, è semplicemente fuori moda. Un classico, praticamente.

Voglio essere sincero: il mio legame con John è qualcosa di molto personale. Nel 2008, mentre seguivo le presidenziali che avrebbero visto il trionfo di Obama, scrivevo per Utet la biografia di McCain, insieme a Moreno Marinozzi e Daniele Moretti. Avevo trentuno anni, il mondo (anche il mio) sembrava sul punto di cambiare radicalmente. Era impossibile non riconoscere il valore simbolico, e non solo, della candidatura di Obama, ma McCain possedeva un fascino che toccava le mie corde.

Il senatore repubblicano dell’Arizona era già un anziano signore canuto, per nulla cool: i denti un po’ ingialliti, i movimenti limitati dalle ferite di guerra, il maglioncino rosso sotto la giacca blu. Come non amarlo? Già il fatto che con il passare del tempo fosse sempre di più l’underdog, il candidato sfavorito dai pronostici, gli garantiva la stima che spetta di diritto chi si ribella ai tempi e al destino.

McCain è stato sempre contro: contro i superiori all’accademia militare di Annapolis, quando riteneva abusassero del loro potere; contro il suo stesso partito, che pensava stesse tradendo i princìpi repubblicani; contro la sorte e la malattia, ora come allora: il cancro lo ha colpito già in passato, ed è stato già sconfitto. Da giovane lo chiamavano McNasty, il dispettoso John, da adulto si è guadagnato il soprannome di Maverick, il cavallo selvaggio che corre lontano da branco. Il senso, in fondo, non cambia. Troppo conservatore per i liberal, troppo autonomo per i conservatori, McCain sembra ispirato da un’idea dell’America che va oltre le divisioni di partito.

“Country first” era il suo motto alle presidenziali di nove anni fa: non un invito all’isolazionismo come l’“America first” di Trump, ma l’impegno a mettere l’interesse del Paese prima di quello personale, un richiamo ai dogmi del credo americano. Le promesse elettorali sono destinate a naufragare nella realtà dei compromessi politici, certo, ma le buone intenzioni di McCain sono accreditate dal suo curriculum e dalle sue cicatrici: l’impegno militare sulle orme del padre e del nonno, la prigionia in Vietnam, l’incidente stradale che devasta la moglie e il loro matrimonio, la carriera alla Camera e in Senato, la battaglia per regolare i finanziamenti privati alla politica, le primarie contro Bush nel 2000, le presidenziali di otto anni dopo. Tutto all’insegna del “mccainismo”, una dottrina fatta di scelte pragmatiche e adesione al credo dei padri fondatori.

Non che McCain sia privo di difetti. «Dirò cose che vi piacciono e cose che non vi piacciono, ma non vi dirò bugie». E in effetti il senatore non ha mai tenuto i suoi scheletri chiusi nell’armadio: la pessima carriera scolastica, un brutto divorzio, la ricca eredità della seconda moglie, lo scandalo dei Keating Five. Straight talk, prima di tutto. Parlar chiaro non fa mai male.

La sfida con George W. Bush è passata alla storia soprattutto per i colpi bassi. «Mai fare un match di wrestling contro un maiale. Ci si sporca entrambi, ma al maiale piace insozzarsi». McCain non ama Bush, ma ha appoggiato le sue scelte quando le ha ritenute valide, e comunque la sua disistima per il vecchio avversario non è neppure paragonabile all’avversione nutrita per Trump. Da campione del parlar chiaro McCain non tollera le fanfaronate del presidente, per tacere dell’irritazione che probabilmente lo coglie al solo pensiero dei contatti tra l’attuale amministrazione e il nemico russo. Make America Great Again, dice Trump, ma per rendere l’America di nuovo grande bisognerebbe farla più simile a McCain. Uno che non ha bisogno di essere populista per essere popolare, che riesce a collaborare con gli avversari rimanendo sé stesso, che non cerca l’approvazione delle star.

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«Washington – ha detto una volta – è una Hollywood per i brutti. Ma Hollywood è una Washington per i ritardati». Idee chiare e battuta pronta. Come quando i democratici proposero lo stanziamento di un milione di dollari per il museo dedicato al concerto di Woodstock. Mentre i figli dei fiori ballavano, nel ’69, McCain veniva torturato dai vietcong. «Sono sicuro si sia trattato di un evento culturale e farmacologico, ma io non c’ero. Ero legato in quel periodo».

McCain conosce la guerra troppo bene per non sapere che è orribile, ma la conosce troppo bene anche per illudersi che possa essere evitata quando il nemico ti ci trascina dentro. Il periodo della prigionia in Vietnam è di quelli che segnano la vita: braccia spezzate, sevizie, torture psicologiche. È anche, però, uno di quei momenti in cui gli uomini – che sono rari, secondo la massima di Napoleone – possono far vedere di che pasta sono fatti. I carcerieri gli offrono la libertà, una mossa che punta a fiaccare il morale degli altri prigionieri e a mettere in difficoltà il padre ammiraglio di McCain. John rifiuta e diventa un eroe americano, come il Robert Jordan di Per chi suona la campana, il suo libro preferito. «Il mondo è un bel posto, e per esso vale la pena combattere», scrive Hemingway. Già. Il no di McCain è una di quelle cose talmente gravi, talmente importanti, che si fa fatica a metterle a fuoco. David Foster Wallace, che nel 2000 seguì la campagna del senatore per la rivista Rolling Stone, ci è riuscito. «Prova a immaginare se fosse toccato a te. Prova ad immaginare la violenza con la quale il tuo primordiale istinto di sopravvivenza ti avrebbe urlato nella testa in quel momento, e prova ad immaginare l’infinità di argomenti razionali che il tuo cervello avrebbe immediatamente prodotto per razionalizzare l’accettazione di quell’offerta. Fatto? Bene, allora adesso chiediti: tu saresti riuscito a dire di no?».

In un’epoca avvezza alle bugie e infastidita dal senso dell’onore dubitare di questa storia è fin troppo facile, ma vi assicuro che il sistema elettorale americano è un tritacarne talmente efficiente che difficilmente una menzogna di questa portata sarebbe sfuggita al vaglio degli avversari e della stampa. Chi non crede negli eroi dovrà farsene una ragione: in America ce n’è ancora uno. I medici gli hanno diagnosticato un tumore al cervello, ma McCain torna al Senato a combattere le sue battaglie. Business as usual. «Il cancro non ha idea di che avversario si è scelto», ha scritto Obama su Twitter. «Scommettere contro John McCain non è mai una bella mossa», ha detto Bill Clinton. Hanno tutti ragione.

@FedLeoni

Foto Ansa

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