
L’inevitabile fine di Joe Biden

Il presidente degli Stati Uniti e candidato democratico alla presidenza Joe Biden si è ritirato dalla corsa presidenziale, annunciando che appoggerà la sua vice Kamala Harris. Se quest’ultima o il sostituto dell’ultimo minuto perderà il confronto elettorale con Donald Trump il 5 novembre prossimo venturo, una responsabilità schiacciante ricadrà su canali televisivi, giornali e giornalisti che si sono lasciati accecare a tal punto dallo spirito di parte da rinunciare quasi in massa al dovere di approfondire imparzialmente la tematica della salute fisica e neurologica del presidente democratico in carica, nel timore di avvantaggiare il suo avversario repubblicano.
Il caso Biden – la vicenda di un presidente la cui senescenza e la cui progressiva inidoneità a ricoprire per altri quattro anni il ruolo apicale nel sistema di governo degli Stati Uniti sono state nascoste ai cittadini da un informale patto del silenzio fra lo staff della Casa Bianca e i grandi media liberal fino al fatale dibattito con Donald Trump del 27 giugno scorso – illustra ampiamente i motivi per i quali gli americani assegnano ai giornali il quartultimo posto e ai notiziari televisivi il penultimo posto nella classifica della fiducia nei confronti delle istituzioni.
Infatti, fra le 17 istituzioni oggetto di sondaggi da parte di Gallup dal 1993, i giornali e le tv occupano i posti in fondo alla classifica per quanto riguarda la fiducia dei cittadini americani: solo il Congresso (appena 10 per cento di opinioni pienamente favorevoli) è disistimato più dei notiziari televisivi (12 per cento), solo il grande capitale (16 per cento di favorevoli) fa peggio dei giornali (18 per cento).
I risultati economici di Biden
Dal punto di vista delle condizioni economiche in cui oggi si trovano gli americani, il bilancio di Joe Biden è abbastanza buono: sotto la sua presidenza i tassi di disoccupazione sono sensibilmente calati (dal 5,4 al 4,1 per cento), il Pil ha ricominciato a crescere dopo la parentesi del Covid a ritmi superiori a quelli della ripresa post-Covid in Europa, i tassi di povertà si sono ridotti nella prima parte del suo mandato (ma hanno ricominciato a salire nell’ultimo anno, quando non sono stati rinnovati fondi speciali creati in epoca Covid), una fetta non enorme ma nemmeno trascurabile del debito studentesco universitario è stata cancellata (167 su 1.700 miliardi di dollari), l’industria delle energie rinnovabili è decollata, la Borsa ha segnato un più 42 per cento nei 500 titoli principali durante la sua presidenza, l’Inflation Reduction Act ha drogato l’export americano, attirato capitali stranieri e riportato negli Stati Uniti imprese nazionali che avevano delocalizzato in Asia le proprie attività, il tutto con grave danno per il sistema industriale dei paesi alleati degli americani nella Nato e nell’Unione Europea che non potevano permettersi le stesse misure: una cosa che, se l’avesse fatta Trump, i media europei avrebbero deprecato nei termini più duri e per un tempo interminabile, mentre essendo opera di un “progressista” si è sollevato solo qualche sopracciglio dalle parti del Financial Times.
Naturalmente c’è anche un risvolto della medaglia: il prezzo della crescita economica accelerata grazie a spesa pubblica in debito per 1.900 miliardi di dollari è stata un’inflazione più alta che nei decenni precedenti (un po’ più del 3 per cento, contro l’1-2 per cento dei due mandati Obama e del primo Trump), che in alcuni casi ha eroso il potere d’acquisto dei salari, l’esplosione del mercato edilizio che rende proibitive oggi le condizioni per l’acquisto di una casa, e i rincari nel settore della ristorazione, che stanno costringendo milioni di americani abituati a frequentare i fast food a modificare le loro abitudini alimentari e ricreative.

I fallimenti in politica estera
Biden ha sicuramente fallito in politica estera: vedi la disastrosa gestione del ritiro delle truppe americane e alleate dall’Afghanistan, la mancata prevenzione dei conflitti dell’Ucraina e di Gaza e la dimostrazione di impotenza nell’imporre un cessate il fuoco alle parti in entrambi i casi, la totale vacuità del suo Summit per la democrazia che doveva sfociare in un’ampia coalizione contro i regimi autoritari, la rinuncia al dare priorità ai diritti umani (vedi il dietrofront nei confronti di Mohamed Bin Salman e dell’Arabia Saudita), eccetera.
E restano insolute al cuore della crisi esistenziale degli Stati Uniti le tragedie delle centinaia di migliaia di morti per tossicodipendenza e per gli alti tassi di criminalità urbana, la radicalizzazione politica che vede contrapporsi la variegata galassia woke e quella suprematista bianca, la degradazione delle più importanti università americane a incubatrici di intolleranza ed estremismo ideologico, la questione migratoria e la questione razziale per nulla pacificate.
Pur con tutti questi fallimenti e queste ferite aperte, Biden avrebbe potuto riconquistare la presidenza, se solo fosse riuscito a comunicare con sufficiente autorevolezza i successi economici ottenuti con le sue politiche. Ma vista la sua sopravvenuta pochezza oratoria, e la retorica per nulla persuasiva della sua vice Kamala Harris, il ticket democratico avrebbe dovuto sperare soprattutto nelle capacità comunicative dei media amici.
L’omertà della stampa liberal
Però come può accadere questo, in un momento in cui la sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti di conduttori televisivi, editorialisti e commentatori pro Partito democratico è uscita rafforzata dalla rivelazione dell’omertà dei media liberal rispetto ai problemi di salute e lucidità del presidente?
Ha scritto Tim Stanley sul Daily Telegraph:
«Gli eventi irregimentati della sua campagna elettorale e le interviste poco frequenti sono stati giustificati col lockdown; la sua storpiatura delle parole è stata spiegata da The Atlantic come conseguenza di una balbuzie che da sempre lo condiziona (di conseguenza, metterlo in discussione apriva all’accusa di abilismo). Dopo la sua vittoria, la segregazione si è fatta semipermanente. Biden in carica ha fatto il minor numero di conferenze stampa e interviste dai tempi di Reagan. […] È stato nel febbraio del 2024 che i nodi sono venuti al pettine: l’ex procuratore Robert Hur ha pubblicato il suo rapporto sulla cattiva gestione dei documenti riservati da parte di Biden, descrivendo il presidente come “un simpatico uomo anziano, ben intenzionato e con scarsa memoria”. I media sono accorsi in difesa del presidente: Joe Scarborough della Msnbc ha definito il rapporto “arbitrario… irrilevante… politicamente parziale, sconclusionato alla Trump”. Il presidente ha risposto con rabbia in una conferenza stampa, complicando però la situazione quando si è riferito al presidente dell’Egitto come “presidente del Messico”. Ha riguadagnato terreno con un infuocato discorso sullo Stato dell’Unione, e mentre passava attraverso le primarie democratiche sostanzialmente incontrastato, Scarborough lo ha descritto non solo come “convincente” ma “migliore di quanto sia mai stato, intellettualmente e analiticamente”».

I video dei suoi lapsus ritenuti “falsi”
Nel mese di marzo
«il Washington Post ha pubblicato un pezzo che è diventato paradigmatico della linea utilizzata dagli avvocati difensori per il caso Biden; in sintesi: inciampa in pubblico, ma è molto acuto in ufficio. Il presidente, rivelava il giornale in stile Pravda, è un avido lettore di dossier, con una mente sveglia che tiene sempre in allerta il suo staff. “In privato… Biden impreca. Alza la voce. Chiede maggiori informazioni. Mette in riga gli assistenti, a volte minacciando di licenziarli, anche se non lo fa mai”. Il pezzo è stato confutato all’inizio di giugno dal Wall Street Journal, che ha rivelato che quando Biden ha incontrato i leader del Congresso per discutere dell’Ucraina “ha parlato a volte così piano che alcuni partecipanti hanno faticato a sentirlo… leggeva dagli appunti cose scontate, faceva pause per lunghi periodi e talvolta chiudeva gli occhi così a lungo che alcuni nella stanza si chiedevano se si fosse appisolato”. Mike Barnicle, commentatore della Msnbc, ha definito l’articolo un “classico pezzo di stroncatura, probabilmente ordinato dal 93enne pluridivorziato Rupert Murdoch”».
E ancora:
«A metà giugno, l’amministrazione ha affermato che i video che mostravano il presidente confuso o vago durante un viaggio in Europa [per il G7, ndt] erano “falsi a buon mercato”, montati in modo tale da distorcere ciò che stava accadendo, arrivando al punto di suggerire che fossero “deep fake”, come se i fatti da loro presentati non fossero affatto accaduti. […] Il Washington Post ha riferito della “rapida diffusione di video manipolati politicamente dannosi” e anche il New York Times li ha etichettati come “video fuorvianti” che contribuivano a una “versione online distorta” di Biden. Potremmo caratterizzare la posizione dei media liberal nel modo seguente: Biden ha un problema di età, ma è nel modo di presentarsi, non nella sostanza. Intanto l’autore satirico Jon Stewart del Daily Show [schierato a favore di Biden, ndt] compilava una serie di consigli da esperto su ciò che il presidente doveva fare per dissipare la caricatura che la destra stava facendo di lui: “Non può avere un momento da anziano”, “non deve mai dimenticare niente”; “stai attento, stai impegnato, stai sveglio!”».
Tutto questo si è ribaltato nel suo contrario all’indomani della disastrosa performance del 27 giugno: gli stessi giornali e gli stessi commentatori che lo avevano difeso fino a quel momento hanno intimato a Biden di salutare e liberare il posto. Ma anche ora che Biden se ne è andato, i media liberal che hanno raccontato per mesi una realtà inesistente (gli stessi che dal 2020 accusano Donald Trump di mentire e tengono il conto delle sue bugie) restano. E rappresenteranno una zavorra probabilmente fatale per il candidato democratico alla presidenza.
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