
Ingroia, storia di un pm che riapre tutti i processi che perde
E alla fine Antonio Ingroia andrà in Guatemala. Incarico prestigioso: per l’Onu sarà capo dell’unità di investigazioni e analisi criminale contro l’impunità nel paese centroamericano. Data prevista per la partenza autunno 2012: data di rientro, un anno dopo. Quello che invece, oggi, non si può ancora prevedere, è la situazione che Ingroia troverà al suo rientro, riguardo al processo trattativa di cui ha rappresentato l’accusa sinora. Può darsi, ad esempio, che finalmente il processo al generale Mario Mori giunga alla sua naturale conclusione. Non è dato anticiparla, sebbene, visto l’andamento del suddetto processo in questi anni (costanti e strutturali smentite dei principali testi d’accusa), a voler giocare di fantasia qualche ipotesi la si potrebbe fare. Oppure, volendosi attenenere ai fatti, salutando per il momento Ingroia si può tracciare un bilancio della carriera di questo magistrato. L’agiografia ingroiana è solita partire dal definirlo “pupillo” di Paolo Borsellino, che lo volle con sé al pool antimafia: non conoscendo però parole precise del grande magistrato sul giovane Ingroia, e sempre volendosi attenere ai fatti, si può parlare di alcuni dati inconstrabili.
La prima volta con don Vito. Nel gennaio ’93, per esempio, subito dopo le stragi di via D’Amelio e Capaci, e subito dopo che i carabinieri del Ros hanno consegnato in manette alla Procura di Palermo il capo dei capi mafioso Totò Riina, ritroviamo il giovane Ingroia (nato nel ’59, e quindi all’epoca 34enne) fianco a fianco del neoprocuratore capo Giancarlo Caselli: insieme vanno a Rebibbia, dov’è detenuto l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino (arrestato dai carabinieri), per interrogarlo. Col senno di poi, essendo stati resi pubblici i verbali di quegli interrogatori, sappiamo per certo anche cosa sente all’epoca il giovane Ingroia direttamente dalla bocca di Don Vito: ovvero che l’ex sindaco, nell’agosto ’92 e dopo la morte di Falcone e Borsellino, era stato contattato dai carabinieri del Ros perché desse loro indicazioni sul rifugio di Riina. Nessun accordo, nessuna trattativa: Ciancimino non riferisce nulla di tutto ciò, ma racconta che, scosso dalla morte di Falcone e Borsellino (e probabilmente in cerca di qualche beneficio giudiziario), cercò di trovare informazioni sul nascondiglio del boss. Non fece in tempo e a dicembre venne arrestato. Per il momento, lasciamo qui questa vicenda, e continuiamo a seguire le vicende del giovane Ingroia.
Uno dei punti ricorrenti della carriera di questo magistrato è che le inchieste che ha seguito non sono mai state numerose. Quelle affidate a lui, però, sono state senza dubbio le più eclatanti. Nel ’94 lo ritroviamo ad esempio a condurre l’accusa a Bruno Contrada, accusato di concorso esterno con Cosa Nostra.
La costante della trattativa. Ci sono delle costanti nel percorso professionale del magistrato palermitano: una di queste la si trova chiara e netta nella requisitoria che fa a chiusura del dibattimento nel ’96. Contrada è, per Ingroia, «l’anello di una catena di coperture offerte alla mafia», «perfettamente integrato in un patto scellerato fra pezzi dello Stato e criminalità mafiosa». Viene da sorridere, o forse da riflettere, a rileggerlo adesso. Perché c’è già, in quella requisitoria, il nocciolo dell’attuale indagine sulla trattativa, e lo dice lui stesso, in aula, in quell’occasione: «Saranno altre indagini a svelare la trama di quel patto scellerato». Di «uomini cerniera», patti scellerati, «ricatto allo Stato» pari pari Ingroia ne parla anche nelle 12 richieste di rinvio a giudizio firmate in questo giugno 2012. Stavolta però, Contrada non c’entra più nulla; i nomi delle cerniere e degli anelli sono altri. Il processo a Contrada si chiude con la condanna del poliziotto, poi confermata anche in appello e Cassazione: viene accolta la ricostruzione del pm, che lo vuole causa indiretta dell’uccisione di poliziotti come Boris Giuliano e Ninni Cassarà, ma anche di Paolo Borsellino.
Sedici anni dopo, Contrada sconta ancora la pena, ma i responsabili della morte di Borsellino sono diversi. Alcuni di loro Ingroia li incrocia per la prima volta proprio al processo all’ex numero tre del Sisde, in cui il generale Mario Mori, ascoltato come testimone, riferisce che Contrada è un ottimo poliziotto e che non gli risulta assolutamente che Falcone abbia mai nutrito sospetti verso di lui.
L’anno successivo, nel ’97, Ingroia avvia l’inchiesta (all’epoca contro ignoti) per la mancata perquisizione del covo di Riina. Mori, insieme al colonnello Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, finisce sul banco degli imputati nel 2005: il processo si chiude nel 2006, Mori e Ultimo sono assolti «perché il fatto (la mancata perquisizione del covo, ndr.) non costituisce reato». Al processo, insomma, si dimostra punto per punto non solo che il capo di Ingroia, Caselli, avesse avallato un ritardo nella perquisizione del covo per favorire altre indagini, ma anche che i carabinieri non hanno commesso alcun intrallazzo.
Una sconfitta per la tesi di Ingroia, insomma. Lui non batte ciglio. E nel 2011, ad Antonello Piroso su La 7 che gli chiede dell’assoluzione di Mori, Ingroia replica con la sua serena rilettura personale dei fatti: «Sì certo che è stato assolto, ma bisogna avere l’attenzione di leggere la motivazione: “Il fatto non costituisce reato”. Dunque la sentenza non dice che Mori non ha fatto il favoreggiamento a vantaggio di Riina, ma che l’ha fatto ma non costituisce reato» (ovviamente la sentenza non dice questo. Ma Ingroia ha anche questa costante: non accetta di conoscere il significato della parola sconfitta).
Il pm che non si sente mai perduto. Subito dopo la sua prima assoluzione Mori si è ritrovato imputato di nuovo, stavolta (almeno all’inizio) per non aver arrestato Bernardo Provenzano. Poi l’accusa è cambiata, ma fa lo stesso: il processo va ancora avanti. Intanto Ingroia, però, ha seguito anche altri casi. Il più eclatante lo avvia già nel ’94: l’inchiesta è a carico di ignoti. Quando finalmente diventa a carico di noti, anzi notissimi, fa scalpore: Ingroia è il primo ad indagare su Marcello Dell’Utri. La sentenza di primo grado arriva nel 2004, e questa volta è una vittoria per il pm: Dell’Utri viene condannato, e così accade anche in appello. La cosa su cui si potrebbe riflettere è che il processo mira a provare come sia Dell’Utri «l’uomo cerniera» tra la mafia e Berlusconi, il solito “anello di congiunzione” della catena: anche in questa storia, gli elementi sono quelli già presenti nella requisitoria Contrada. Nel 2012, però, succede che la Cassazione boccia in parte questa ricostruzione e chiede di provare di più e meglio i rapporti tra Dell’Utri e Cosa Nostra tra il 1978 e l’82, così come la Cassazione sostiene che manchino prove dell’eventuale sostegno della mafia a Forza Italia. A prima lettura, questa sentenza parrebbe una sconfitta per la tesi di Ingroia, ma nessun problema: non si fa in tempo a imbastire la riapertura del processo d’appello bis, che il pm ha già indagato di nuovo Dell’Utri, stavolta con l’accusa di estorsione (40 milioni di euro) a Berlusconi.
Nel 2011 si conclude intanto il processo per la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, e in questo caso Ingroia non riesce a far condannare Totò Riina. Nessun problema: nel 2012 si sono riaperte le indagini per il De Mauro bis. Le ha avviate sempre Ingroia. En passant, nel 2011, Ingroia si vede anche sconfessare il principale teste della trattativa, Massimo Ciancimino, che ha raccontato una versione dei fatti diversa da quella raccolta da Ingroia direttamente da don Vito nel ’92.
Un vietnam? Meglio il Guatemala. Quello della trattativa, con le intercettazioni persino a Napolitano, è diventato pian piano una specie di “vietnam”, un pantano “giudiziario-costituzional-mediatico” per il pm palermitano. Ma lui fa spallucce. Persino quando Napolitano ha investito la Corte costituzionale del caso scoppiato con la procura di Palermo, Ingroia non si scompone: «Le intercettazioni sono penalmente irrilevanti» dice. Non verranno pubblicate, assicura, sempre a mezzo stampa. Certo è, però, che le intercettazioni al Capo dello Stato in mano sua sono arrivate e pure da un pezzo, e lui le conosce benissimo: forse anche per questo è stato particolarmente felice quando Napolitano, il 19 luglio, ha chiesto «di lavorare senza sosta» per la ricerca della verità sulla morte di Borsellino.
Anche se a molti commentatori quello sembra solo un messaggio quasi necessario per ricucire uno scontro tra le istituzioni di un intero Stato, Ingroia alla stampa quel giorno può replicare con un sorriso: «Ho apprezzato e condiviso il richiamo del Capo dello Stato». «Io non mi sento in guerra con nessuno, però che sia diventato un bersaglio questo lo avverto anch’io».
Oggi il pm si appresta a lasciare Palermo per l’Onu. Un promoveatur ut removeautur? Forse: sta di fatto che Ingroia, ancora a metà giugno e prima del casus belli con Napolitano, all’Onu avrebbe preferito forse non andare, tanto che alla stampa smentisce in quei giorni di aver ricevuto un’offerta da Ginevra. Pare che intanto abbia chiesto al Csm di lasciarlo comunque procuratore aggiunto a Palermo: ma Palazzo dei marescialli, proprio in questi giorni, lo sospende, per tutta la durata dell’incarico, dalla magistratura. Il trasferimento sembrerebbe dunque una sconfitta. Se lo è, è di quelle che gli lasciano il consueto lusso di far spallucce. Anzi: «In quelle latitudini, per fortuna, i giudici antimafia italiani sono apprezzati anziché denigrati e ostacolati».
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6 commenti
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Mille come Ingroia, averceli e non ci sono purtroppo.
Questo articolo é una m….!
Premesso che non ho nulla contro i poveri guatemaltechi, ma non si potrebbe fare una petizione per chiedere all’ONU di far rimanere Ingroia in Guatemala per i prossimi trent’anni? In cambio potremmo offrire alle inevitabili ondate di profughi in fuga dal Guatemala “ingroizzato” permesso di soggiorno illimitato, una casa ed un lavoro. Ci guadagneremmo lo stesso.
Fate prima ad ucciderlo prima dei vostri ……..
Io invece spero che – se dovesse realmente andare in Guatemala – il dr. Ingroia possa tornare presto a Palermo per continuare a dare il suo prezioso ed importantissimo contributo alla lotta alla mafia.
Con buona pace di qualcuno…