
«Professò, ma poi?». Insegnare l’arte della sartoria napoletana in un carcere minorile

Dai clienti prestigiosi ai ragazzi difficili. Il sarto napoletano Pino Peluso non si è mai tirato indietro di fronte alle sfide difficili. Per questo non si è spaventato quando la Regione Campania gli ha proposto di andare a insegnare a detenuti minorenni la nobile arte della sartoria da uomo. Il carcere minorile di Nisida si trova su un’isoletta di fronte a Napoli, e lì Peluso sta insegnando ai ragazzi, da zero, a preparare un gilet anche se alla fine, come vedremo, non è solo questo il risultato.
Ogni lunedì, martedì e venerdì il sarto si congeda dalla sua prestigiosa sartoria nel centro di Napoli per andare dai suoi studenti. Al mattino fa lezione a un gruppo di ragazze, quattro, al pomeriggio a undici baldi giovani. Peluso già insegna alla Camera europea dell’Alta sartoria, essendone il vicepresidente, ma questo è tutto un altro genere di “utenza”. «Alle mie spalle – racconta a tempi.it – ho parecchie generazioni di sarti, è così è stato naturale seguire questa strada. A 12 anni già bazzicavo nel laboratorio dei miei genitori e, talvolta, invece che andare a scuola, andavo in uno dei tanti laboratori di sartoria presenti a Napoli. Non volevo andare alle superiori, avevo già la sartoria nel sangue».
PROFESSO’, MA POI? Oggi Peluso è un professionista affermato e sa bene quante ore e quanta pazienza occorra per preparare un abito di qualità. Pazienza e precisione, ecco le due parole che, nelle ore di lezione coi detenuti, diventano di fondamentale importanza: «Guai a perdere un solo attimo con loro. Bisogna sempre sollecitare la loro attenzione. È stato così fin dal principio. Sono ragazzi che non sanno cos’è l’attesa. “Fuori” sono stati abituati a prendere tutto e subito, poco importa se legalmente o illegalmente. La domanda che mi fanno più spesso è: “Professò, ma da grande cosa potrò fare?”. Potresti fare il sarto, rispondo loro. “Ma qui a Napoli, sapendo i miei trascorsi, non mi assumerebbe nessuno”. Quando ribatto loro che potrebbero andare altrove, avendo come punto di forza il saper cucire e l’essere napoletano, rimangono stupiti».
Nel carcere di Nisida si tengono anche altre attività, come laboratori di falegnameria e artigianato. Quando hanno detto loro che il nuovo laboratorio sarebbe stato di “taglia e cuci” sono rimasti perplessi: “Ma non vorrete mica farci diventare delle sartine?”. Poi, invece. «Siccome nel carcere vengono prodotti i classici pastori da presepe napoletano, alti 40 centimetri, ho proposto loro, dopo qualche lezione, se non volessero confezionarne i costumi. Mi hanno detto di no, che ci tenevano proprio a imparare a ideare un gilet, per indossarlo e farlo vedere alla mamma».
VOGLIA DI RISCATTO. «Sto insegnando loro anche storia del costume, non durante ore apposite, bensì nel corso delle lezioni. A un certo punto, mentre spiego il perché di una piega o un punto, racconto aneddoti inerenti alla storia della moda, e loro imparano senza rendersene conto. Se entrando in classe dicessi: “Oggi storia del costume”, comincerebbero a volare palline di carta». Peluso non conosce i motivi per cui quei ragazzi si trovano privati della libertà, ma non importa: «Qualcuno mi ha detto che uscirà dal carcere tra una decina d’anni, uno che sarebbe uscito tra un paio di settimane, dispiaciuto di non poter completare il mio corso e imparare a fare quel gilet. Io spero che quei ragazzi un giorno vengano a bussare alla porta della mia sartoria, desiderosi di imparare. Se così fosse, sentirei di avere fatto il giusto».
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