L’interminabile agonia della Grecia e l’ultima arma di Tsipras

Di Rodolfo Casadei
14 Giugno 2015
Il mondo si divide sulle ricadute di un eventuale default greco, ma il vero problema è politico. Senza aiuti europei Atene stringerebbe alleanze strategiche con la Russia. Un rischio troppo grande per Bruxelles e Washington

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Non si trattasse di un paese dell’Eurozona, la crisi del debito greco sarebbe già risolta da molto tempo in uno dei due soli modi nei quali, da che mondo è mondo, si risolvono le crisi debitorie internazionali: o con la bancarotta dello stato indebitato, o con la cancellazione della maggior parte del debito da parte dei creditori. Lo stato bancarottiere (oggi si dice: che ha dichiarato default sui pagamenti del debito) smette di pagare i creditori, per un po’ non ottiene più prestiti sui mercati finanziari, si rimette in sesto grazie alla svalutazione che sempre segue a una bancarotta, e allora i mercati si dimenticano del fallimento e tornano a offrire i loro prestiti. Oppure, come s’è fatto a partire dagli anni Novanta coi paesi poveri e fortemente indebitati dell’Africa, i paesi creditori cancellano un’alta quota dei debiti di quei paesi in cambio di riforme economiche che rendono sostenibile la parte restante di debito. Fra il 1996 e oggi Fondo monetario internazionale (Fmi) e paesi industrializzati hanno cancellato 75 miliardi di dollari di debito estero di 36 paesi, quasi tutti africani.

Invece con la Grecia siamo entrati nel sesto anno di una serie di interventi che non contemplano né la cancellazione di una quota decisiva di debito, né la rassegnazione all’inevitabile default. Da cinque e passa anni i creditori tengono in vita il malato greco con flebo di prestiti per decine di miliardi di euro (244 per l’esattezza), ma allo stesso tempo gli impongono una cura di austerità di bilancio che rende penosissime le sue condizioni generali e fa della guarigione un miraggio. Dopo cinque e passa anni di prestiti e politiche di austerità la Grecia si ritrova oberata da un debito di 330 miliardi di euro, pari al 180 per cento del Pil annuale, mentre nel 2010 equivaleva al 129 per cento. In cinque anni la Grecia ha visto diminuire il suo Pil del 25 per cento e il reddito medio dei greci del 40 per cento; l’unica cosa che è cresciuta è stata la disoccupazione, che ha raggiunto il 28 per cento. Certo, la colpa è anche dei vari governi greci, che prima e dopo la crisi hanno praticato politiche clienteliste, assistenzialiste, stataliste e non hanno rispettato alcuni degli impegni che si erano assunti. Ma che il taglio della spesa pubblica, soprattutto quando non si può intervenire sul tasso di cambio della moneta nazionale (l’euro è governato dalla Bce e dai parametri di Maastricht), favorisca una spirale recessiva dell’economia piuttosto che un ritorno alla crescita ormai l’ha capito persino l’Fmi, che in passato impose decine di piani di aggiustamento strutturale centrati sull’austerity ai paesi del Terzo Mondo che si trovavano costretti a ricorrere ai suoi prestiti. Ha dichiarato recentemente Ashoka Mody, ex vicedirettore del dipartimento europeo del Fmi: «Ciò che più abbiamo imparato negli ultimi cinque anni è che imporre l’austerità a un paese in ciclo deflazionario è una pessima politica economica. Chi ha subìto un trauma deve recuperare il suo infortunio prima di poter correre i 10 mila metri. Sono veramente stupito che nelle attuali circostanze venga proposto un aumento dell’Iva sui consumi. Abbiamo già visto che un aumento prematuro dell’Iva toglie fiato alla ripresa economica in un paese forte come il Giappone. Syriza (il partito di estrema sinistra del premier greco Alexis Tsipras, ndr) dovrebbe assumere l’intero dipartimento della ricerca del Fmi come suo portavoce, perché stanno dicendo esattamente la stessa cosa. L’intera strategia dei creditori è sbagliata e più tutto questo va avanti, più costerà a loro e alla Grecia».

Il governo rosso-nero (Syriza governa in coalizione coi Greci Indipendenti, partito nazionalista di destra) di Tsipras è certamente responsabile del clima di incertezza che ha allontanato gli investitori e causato la fuga dei capitali dal paese (da dicembre a oggi i depositi bancari sono diminuiti di 30 miliardi di euro), propone politiche demagogiche in tema di mercato del lavoro e di Stato imprenditore. È vero che l’evasione dell’Iva in Grecia è troppo alta e che i greci vanno in pensione troppo presto. Ma questo non giustifica il piano “prendere o lasciare” messo a punto dai creditori la cui accettazione da parte di Atene rappresenta la condizione per sborsare gli ultimi 7,2 miliardi di euro del piano di salvataggio avviato nel 2010. Esso prevede il raddoppio all’11 per cento dell’Iva sui medicinali e sull’elettricità e l’aumento di quella sui servizi turistici fino al 23 per cento, allo scopo di far incassare allo Stato 1,8 miliardi di euro in più. Prevede pure ulteriori sforbiciate alle pensioni per 900 milioni di euro, in un paese dove il 44,5 per cento dei pensionati, dopo i tagli già effettuati gli anni scorsi, incassa somme inferiori alla soglia della povertà relativa. Sembra di rivedere il film del governo Monti in Italia. Dietro queste geniali trovate si riconosce la mano di Jeroen Dijsselbloem, il presidente dell’Eurogruppo che al tempo della crisi di Cipro inizialmente propose un prelievo forzoso del 6,75 per cento sulle somme depositate nei conti correnti bancari ciprioti, in violazione di tutte le leggi di tutti i paesi dell’Unione sulla tutela dei depositi bancari.

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Un’interminabile agonia
Secondo Robert Peston, il commentatore di notizie economiche della Bbc, Ue, Bce e Fmi (che predica bene ma razzola male) hanno deciso di condannare la Grecia a un’interminabile agonia: «Nel caso altamente improbabile che la Grecia riesca a generare un surplus di bilancio del 2 o 3 per cento un anno sì e un anno no senza che la sua economia sprofondi ulteriormente (cosa che pochi economisti sono disposti a scommettere), ci vorrebbe mezzo secolo prima che il debito pubblico della Grecia discenda a livelli sostenibili. Mezzo secolo di austerità? In quale democrazia moderna questa sarebbe considerata un’opzione realistica?». L’estenuante negoziato per il versamento alla Grecia dell’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi di euro in cambio di ulteriori misure di austerità ha qualcosa di surreale: «È una disputa per decidere se i creditori debbano sborsare del denaro per pagare se stessi e non essere costretti a chiamare il default della Grecia. In altre parole, si tratta di decidere se l’Fmi e l’Eurozona possano continuare a fingere che la Grecia è un debitore sicuro e solvibile. Ma non vi dice niente il fatto che uno che vi deve del denaro ha bisogno che gliene prestiate ancora per poter continuare a ripagarvi?».

Tutto questo accade solo e soltanto perché la Grecia fa parte dell’Eurozona, e perciò sia il default sia la cancellazione del suo debito rappresentano una minaccia mortale per la sopravvivenza della moneta unica europea. Se la Grecia fa bancarotta s’innesca il processo che in brevissimo tempo porta il paese fuori dall’euro, e a quel punto è forte il rischio che i mercati tornino a speculare sul debito pubblico dei paesi mediterranei indebitati (nel probabile ordine: Portogallo, Spagna e Italia); l’Europa che non ha saputo salvare la piccola Grecia a maggior ragione non potrà fare niente per paesi con un debito molto più grande in valore assoluto come quello di Spagna e Italia, e l’euro andrà gambe all’aria.

Se invece l’ex Troika (adesso si usa l’espressione “le istituzioni”) decide di cancellare una quota decisiva del debito greco, crea un precedente che spingerebbe immediatamente gli altri paesi indebitati a chiedere uguaglianza di trattamento. Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna esigerebbero anche loro di uscire dalle politiche di austerità o di vedersi cancellati i debiti. Alle urne i partiti di governo che hanno praticato disciplinatamente le politiche di Bruxelles verrebbero puniti e quelli che le osteggiano verrebbero premiati (del resto è ciò che è già accaduto in Grecia a gennaio e in Spagna a maggio). Andrebbero al governo le forze populiste di destra e di sinistra che propongono l’uscita dall’euro del loro paese o l’uscita “verso l’alto” della Germania e dei suoi alleati.

Non tutti vedono il default della Grecia in termini catastrofici. Ci sono economisti e politici in tutta Europa, e soprattutto in Germania, convinti che il rischio di contagio sia minimo grazie ai meccanismi di difesa creati a partire dal 2010 (Fondo salvastati, riforme della spesa pubblica nei vari paesi, unione bancaria, il quantitative easing della Bce che andrà avanti fino al settembre 2016) e che in fin dei conti l’uscita della Grecia dall’euro potrebbe essere una buona cosa, perché l’insieme restante sarebbe più coeso e disciplinato. Scrive Der Spiegel: «I rischi derivanti da un’uscita della Grecia dall’euro per l’intera Eurozona sono gestibili e la Bce userebbe tutti gli strumenti a sua disposizione per difendere l’unione monetaria. L’Fmi ha lodato l’Eurogruppo per aver costruito una barriera tagliafuoco in grado di impedire che la turbolenza prodotta da un’uscita della Grecia dall’euro si trasmetta ad altri paesi. Ma la cosa più importante è il fatto che i paesi della periferia dell’Eurozona non sono più esposti ai rischi come lo erano all’inizio delle turbolenze dell’euro nel 2010. Gli interessi sui titoli di Stato di Spagna e Italia potrebbero aumentare leggermente dopo un’uscita della Grecia dall’euro, ma, prevedono gli esperti della Commerzbank, “non c’è alcun pericolo di crack”».

Gli interessi americani
Questi discorsi però non tengono conto di un altro rischio, ben più pericoloso dell’instabilità dell’euro, che si correrebbe in caso di uscita della Grecia dalla valuta unica. Lo ha per esempio evidenziato Wolfgang Münchau sul Financial Times: «Un Grexit lascerebbe la Grecia fuori dell’Eurozona ma dentro alla Unione Europea. Potrebbe a quel punto Bruxelles contare ancora su di un duraturo sostegno greco per mantenere le sanzioni contro la Russia? Quale leader politico ragionevole vorrebbe avere a che fare con problemi del genere solo per un pugno di miliardi di euro? Se vengono spinti fuori, i greci potrebbero cercare legami finanziari più stretti con la Russia. Non riesco a capire come questo possa essere desiderabile per l’Unione Europea».

Sì, il punto è proprio questo. Le ricadute finanziarie di un default greco possono essere gestite, ma le conseguenze politiche sul processo di integrazione europea così come si è compiuto in questi anni sarebbero gigantesche. Tsipras lo sa, e sta velatamente ricattando l’Europa proprio su questo versante: ha incontrato Vladimir Putin per parlare di progetti energetici che non piacciono né all’Unione Europea né agli americani proprio nei giorni caldi del negoziato con Francoforte e Bruxelles. E in queste settimane i più ansiosi avvocati della causa greca sono stati gli Stati Uniti, che a più riprese (anche nel corso del vertice del G7 in Baviera) hanno esortato gli europei a risolvere una volta per tutte la crisi greca, proprio per evitare una crepa del fronte occidentale nel muro contro muro che contrappone Occidente e Russia dai giorni dell’annessione della Crimea a Mosca. Insomma, la piccola Grecia può ancora essere il granello di polvere che blocca il grande ingranaggio.

@RodolfoCasadei

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1 commento

  1. Filippo81

    Magari la Grecia si avvicinasse alla Russia di Putin !

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