
Intervista al regista di 1993, serie tv di Sky sulla “rivoluzione” italiana

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Trenta aprile 1993. Comincia da qui 1993, secondo capitolo della serie nata da un’idea di Stefano Accorsi, prodotta da Sky e realizzata da Wildside, in onda da martedì 16 maggio su Sky Atlantic HD. Comincia sul viale del tramonto di Bettino Craxi che, all’uscita dall’hotel Raphaël di Roma, viene investito dal fragore della folla e dal tintinnio delle monetine. Comincia col “suono della rivoluzione” – per parafrasare il sottotitolo della serie – la prima delle otto puntate ambientate nell’annus horribilis di Tangentopoli. Una rivoluzione innescata l’anno precedente con l’apertura di Mani pulite; una rivoluzione per molti aspetti simile a quella francese (che fu Terrore e poi Restaurazione), alla quale la sceneggiatura si ispira, sviluppando un parallelismo temporale stagionale e richiamando anche, per voce di Accorsi, le parole di Danton (alla sbarra) che già lasciano intuire un oscuro avanzare di accuse, trattative, inganni, processi.
Perché, appunto, “ogni rivoluzione ha un prezzo”, e con quel prezzo deve fare i conti Leonardo Notte (Accorsi), pubblicitario spietato con qualche omicidio già inserito in curriculum che ora, tra le ombre di un passato da zittire (dove compare anche Vinicio Marchioni nel ruolo di Massimo D’Alema) e una fidanzata stabile interpretata da Laura Chiatti, vende l’anima alla politica e mira al fianco partitico di un Berlusconi (Paolo Pierobon) pronto a “scendere in campo”. È il prezzo del corpo, della bellezza, della dignità che Veronica Castello (Miriam Leone) ha concesso a spacciatori di promesse televisive, e che adesso, a successo ottenuto, continua a rilanciare per tenere a bada la concorrenza. È il prezzo dell’indole grezza del leghista Pietro Bosco (Guido Caprino) con la quale baratta in un sol colpo reputazione e sentimenti, tra eccessi fisici e alcolici. È il prezzo della salute, della vita infettata dall’Hiv di Luca Pastore (Domenico Diele), membro del pool di Mani pulite, che nel nome della giustizia – quella che conserva Di Pietro (Antonio Gerardi) come paladino nazionalpopolare – persegue una vendetta privata nei confronti di una sanità corrotta. È il prezzo del potere e della verità (e, se ancora esiste, della moralità) che paga Bibi Mainaghi (Tea Falco), ex figlia di papà con tendenze tossicomani, cresciuta per obbligo aziendale e divenuta imprenditrice collusa, immersa tanto nell’eleganza quanto nella solitudine.
Dunque, dopo l’anno dello scandalo Tangentopoli (1992 è stata venduta in quasi cento paesi), arriva quello del “terrore”, come precisano gli sceneggiatori e creatori Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo. L’anno del “tutti contro tutti” dove individuali sconvolgimenti interiori, lati oscuri da (s)coprire, ambizioni e ripicche s’intrecciano con il clima febbrile segnato dal vecchio potere che crolla insieme alla Prima Repubblica, nuove rincorse alle poltrone, suicidi eccellenti, varietà televisivi, bombe, sequestri e attentati mafiosi. In poche parole, l’anno dell’instabilità e della paura diffusa, un periodo buio in cui tutto cambiò (o forse no). Di certo c’è che, nella finzione, rispetto a 1992 è cambiato lo stile. Così come a livello narrativo sono mutati il rapporto e le responsabilità dei personaggi con la realtà non solo storica e politica, ma anche culturale e sociale dell’epoca, come spiega a Tempi Giuseppe Gagliardi, che ha firmato la regia di entrambi i capitoli della serie.
Gagliardi, 1993 assume, sin dalle prime immagini, le atmosfere del noir. Perché questo cambio stilistico rispetto alla prima stagione?
1993 non è solo una seconda stagione: è parte di una serie, forse l’unica al mondo, che cambia il proprio titolo e mette in atto un’evoluzione più ampia. Allora ci siamo chiesti come rendere questa trasformazione, come riflettere lo spirito nero dei personaggi che vivono un momento di grande incertezza. La risposta è arrivata dalle regole classiche del noir, dove uomini e donne chiaroscurali, complessi, devono tentare di sopravvivere alle sfide alle quali sono chiamati anche violando le leggi. Abbiamo lavorato in modo diverso sull’indagine psicologica dei personaggi, cercando di cogliere l’inquietudine che loro, come tutti gli italiani, vivevano allora. E volevamo che stile e forma riflettessero queste sensazioni: così la macchina da presa diventa più rigorosa e meno nervosa, si avvicina ai volti per coglierne quelle emozioni capaci di descrivere uno stato d’animo comune.
Uno spirito thriller che coinvolge anche fotografia, costumi, ambienti…
Avevamo l’intenzione di narrare questo anno come fosse un thriller politico e l’idea era quella d’ispirarsi ai codici precisi del genere, facendo in primis un lavoro con il direttore della fotografia (Michele Paradisi, ndr), poi agendo su costumi e scenografie per rendere l’immaginario molto più visibile, esplicito. Perciò i toni cambiano: in 1992 i colori erano più nitidi, qui invece tutto tende a tinte scure. Però questi non sono solo gli anni delle inchieste, dei processi: sono anche gli anni di una tv sempre più protagonista, gli anni del varietà, dei programmi d’intrattenimento: ecco perché abbiamo deciso di riprendere alcune sequenze con il betacam, che è il formato di ripresa degli anni Novanta per eccellenza. C’è quindi un incontro di stili: abbiamo anche inserito per la prima volta i flashback per richiamare il passato degli anni Settanta, lavorando sul materiale dei fotografi di quel periodo di contestazione per capire come rappresentavano quei momenti e quei movimenti, e per dare allo spettatore non un semplice bianco e nero, ma la sensazione di trovarsi in una fotografia dell’epoca.
In questo secondo capitolo la Storia interagisce con le vicende personali dei protagonisti in un rapporto costante di causa-effetto reciproco…
Il 1993 è stato l’anno della paura, della destabilizzazione. Verso la fine di luglio palazzo Chigi rimase a lungo isolato a causa di un blackout, e Ciampi, all’epoca presidente del Consiglio, molti anni dopo ammise di aver avuto paura per la prima volta nella sua vita. Davvero paura. Abbiamo cercato di lavorare proprio su questo senso di apprensione, di perdita di punti di riferimento che ognuno a proprio modo subiva dall’esterno, dalla Storia, e contemporaneamente riversava su di essa attraverso le proprie azioni, per sopravvivere a quella realtà, in qualche modo.
E come ha comunicato agli attori l’esigenza di rendere tangibile questo senso di angoscia?
Il mio lavoro di direzione degli attori è stato molto semplice perché sono convinto che il contributo creativo che dà personalmente l’attore sia fondamentale: io cerco di seguire il loro istinto agendo come moderatore, senza imporre una mia volontà preventiva. Lascio cioè che ognuno di loro porti la propria idea, la propria visione, esprimendola in totale libertà. Libertà che, naturalmente, va di pari passo con gli accorgimenti che di volta in volta cerco di dare per potenziare il risultato della loro interpretazione.
Perché vedere 1993?
1993 è da vedere perché c’è una trasformazione profonda delle vicende dei personaggi conosciuti in 1992 e, sopratutto, c’è una maggiore densità d’incontro tra queste vicende private e gli accadimenti storici. Chi ha amato 1992 (e anche chi non l’ha amato) troverà in 1993 un legame più forte tra grande Storia e piccole storie, con la volontà, da parte nostra, di raccontarle per come sono, con tutte le loro contraddizioni e sfumature, senza giudizio o intenti accusatori.
Dopo 1993 arriverà 1994?
Per il momento è solo un’idea, ma seguendo quello che è il concept della serie, ci chiederemo cosa succede a sei italiani, cioè i nostri personaggi, rispetto alla Storia con la S maiuscola e ai suoi protagonisti realmente esistiti ed esistenti, che comunque – questo si può già dire – non prenderanno mai il posto delle linee narrative centrali che sono di invenzione.
Foto Ansa
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