
La preghiera del mattino
Kamala Harris pareva una Merkel e invece era una Boldrini

Su Formiche Francesco Bechis scrive su Giuliano Amato: «L’ex presidente del Consiglio e giudice della Consulta parla poco e soppesa le parole. Sa di essere ancora una volta al centro delle cronache. Non perché abbia fatto qualcosa per arrivarci». È Natale, ogni ipocrisia vale.
Su Huffington Post Italia Alberto Quadro Curzio sostiene che «Draghi in 7 anni al Quirinale può servire molto all’Italia e all’Europa, perché come il nostro paese anche l’Unione ha un grande problema di sostenibilità». Sguardo lungo o topini alla ricerca della loro fettina di formaggio: questo il dilemma che incombe sulle prossime scelte per il Quirinale.
Su Huffington Post Italia Giancarlo Loquenzi dice: «A Giorgetti direi che il primo a non saper comunicare è il governo. Questo ha alimentato il proliferare dei tanti virologi ed esperti in televisione». Pensando a certi successi comunicativi del truffaldo Giuseppi, verrebbe quasi da dire: aridatece Casalino.
Su Open si scrive: «L’ha confidato a collaboratori e alleati più stretti: finché Joe Biden, in campagna elettorale, ha avuto bisogno di lei per sconfiggere Donald Trump, Kamala Harris era al centro dell’attenzione mediatica e le sue istanze erano portate avanti anche dal numero uno dei democratici. Poi, arrivato il momento di governare, la vicepresidente è stata lasciata in un cono d’ombra». Mah! Non sarà che la Harris era stata considerata una specie di Angela Merkel e poi si è rivelata una sorta di Laura Boldrini?
Su Dagospia si riporta, da un articolo di Francesco Verderami, questa frase che avrebbe detto Silvio Berlusconi su Mario Draghi: «Nemmeno Di Maio lo vuole al Quirinale». E Fedez? Se non si è ancora espresso, qualche speranza di avere un Colle draghiano c’è ancora.
Su Dagospia si riporta da un articolo di Lorenzo Cresci per la Stampa questa frase di Selvaggia Lucarelli: «Io sono tornata all’età infantile. Io mi sono aggrappata ai pantaloni di quest’uomo». No, non parla di lavoro, del suo passaggio da Alessandro Sallusti a Marco Travaglio e infine a Stefano Feltri. Discorre dei suoi amori.
Su Affari italiani Luigi Bisignani dice: «Il giudizio è negativo per diversi motivi. Come costituzionalista Mattarella ha seguito poco la Carta e non ha sciolto il Parlamento quando avrebbe dovuto farlo. Non solo, come presidente del Csm non ha sciolto nemmeno il Consiglio superiore della magistratura, altra sua prerogativa, quando è esploso il primo scandalo che ha portato alle dimissioni di alcuni consiglieri». Insomma Sergio Matatrella sarebbe da una parte un Luigi Cadorna che ha preparato una Caporetto istituzionale e dall’altra un Armando Diaz che con Mario Draghi ha organizzato la controffensiva sul Piave?
Su Affari italiani Paolo Alagia scrive: «Proprio guardando al Quirinale, la verità è che il gruppo Misto in potenza potrebbe essere il vero ago della bilancia». Con nocchieri così l’Italia si troverebbe in una condizione perfettamente a metà tra La nave dei folli di Stanley Kramer e La zattera della Medusa di Théodore Géricault.
Su strisciarossa si titola così un articolo di Onide Donati: “Quei settantamila bambini che le donne comuniste misero sui treni e salvarono dalla miseria”. Altro che mangiarseli!
Su lavoce.info Giuseppe Pisano: «Raramente una misura ha ricevuto il sostegno pressoché unanime delle forze politiche in Parlamento come nel caso del Superbonus – o Ecobonus – 110 per cento. Le motivazioni avanzate sono varie. La più importante sembra essere il rinnovamento del patrimonio edilizio del paese in funzione della transizione ecologica. In questa ottica, i dati mostrano che il Superbonus è semplicemente non sostenibile e distorsivo». Ecchè? Siamo in presenza di un guastatore delle truppe di Sub Mario Monti che attacca quelle di Super Mario Draghi?
Su Atlantico quotidiano Federico Punzi scrive: «I numeri da tenere d’occhio sono invece quelli di ricoveri e decessi, ancora sotto controllo». In quell’“ancora” c’è tutta la debolezza dell’argomentazione, peraltro piena di spunti intelligenti, di Punzi, che dovrebbe riflettere non solo sulle sacrosante esigenze di libertà di una democrazia ma anche sui problemi di un mercato assai provato e che a ogni segno d’incertezza, collassa. È questo il punto su cui i Draghi dell’economia hanno una carta in più rispetto ai pur magnifici Leoni della libertà.
Sul Sussidiario in un’intervista: «A me pare – dice l’economista ed ex ministro delle Finanze Francesco Forte – che in Germania, per quanto la situazione non sia semplice, prevalga la linea socialdemocratica e che i rigoristi, rispetto all’era Merkel, abbiano meno spazio e siano meno fondamentali». Un grande intellettuale come Forte coglie il punto: sta finendo l’era del consociativismo ordoliberista, ritornano le culture socialdemocratica e conservatrice, la politica avrà radici e così l’Unione Europea qualche speranza.
Su Startmag Francesco Damato, da quel fine osservatore politico che è, indica un altro fattore pro Draghi al Quirinale e pro voto anticipato: «I magistrati, si sa, soprattutto quelli di prima linea, cresciuti all’ombra delle loro inchieste enfatizzate e pilotate anche nelle fughe di notizie utili ai processi mediatici e sommari, che precedono quelli ordinari nei tribunali, hanno molto, anzi moltissimo da temere dalle prove referendarie promosse da quei rompiscatole di radicali e di leghisti finalmente convertiti al garantismo». L’obiettivo di impedire o almeno rinviare il referendum potrebbe essere l’elemento decisivo per condizionare i tanti pm-dipendenti nel Pd e i 5 stelle.
Sugli Stati generali Francesco Ziosi scrive: «Resta che a discutere, anche pubblicamente, di quella stagione bisogna ritornare con una certa prepotenza, e il fiorire di pubblicazioni, accademiche e meno, che hanno come spazio di scena lo iato tra piazza Fontana e la Stazione centrale è del tutto benvenuto. I tempi sono maturi, del resto, perché si riconoscano quegli anni come fondativi della nostra peculiare relazione con quella cosa complicatissima e pachidermica che chiamiamo Stato: dopo quegli anni pieni di sangue quanto di piombo, non ci sono più state dialettiche serie: solo dialettiche farlocche, e reciproci sospetti». La questione italiana sarebbe determinata – come scrive Ziosi – dalla stagione degli anni Settanta? Cercare le linee che collegano il presente al passato è sempre meritorio. Però l’elemento centrale che definisce anche quello nazionale, è lo scenario mondiale. Con il 1989 (caduta del Muro di Berlino) e con il 1991 (fine dell’Unione Sovietica) finisce un’epoca iniziata con il 1914 e segnata poi dalla “Conferenza” di Yalta del 1945: senza sottolineare la rottura di continuità del quadro che condizionava anche la storia italiana, non si coglie il senso di quello che è accaduto.
Su First online Franco Locatelli scrive: «L’Italia ha davanti a sé un’occasione unica e irripetibile per incassare un sacco di soldi e fare le riforme che servono a svoltare, a modernizzare il paese e a imboccare finalmente la strada di una crescita elevata e duratura. E, benché Draghi affermi con un po’ di civetteria che ormai l’impianto per spingere l’Italia sulla via delle riforme e della crescita è stato costruito, un premier non vale l’altro. È questo il punto cruciale che deve orientare anche le scelte per il Quirinale». È da 30 anni che le scelte di fondo dell’Italia sono guidate dal presidente della Repubblica, man mano distorcendo il nostro sistema istituzionale e politico: ora abbiamo l’occasione di contare per il Colle su una personalità che può garantire un buon indirizzo di un governo, sia esso di unità nazionale, di destra o sinistra, e insieme, per la sua estraneità ai giochi politici (diversamente da Giorgio Napolitano) e per una sapienza superiore a quella di un tecnico che fece numerosi errori coma Carlo Azeglio Ciampi, ridare spazio a una politica che altrimenti sarebbe riempita da nuovi fenomeni disgreganti tipo i grillini. Secondo Locatelli non bisognerebbe invece usare questa opportunità, e sprecare una risorsa strategica in un anno di campagna elettorale con un Quirinale fragile a sorvegliare il processo.
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