La cattura di Saddam
Amman, 9 dicembre 2003
Eccomi di nuovo qua, di nuovo sulla strada per l’Irak. Sono passati quasi otto mesi dalla fine della guerra. Era fine aprile, stavo a Kirkuk. C’erano cippi allineati su una distesa brulla tra industrie e caserme vuote della periferia di Kirkuk. La prima fossa comune ritrovata. Kirkuk, la capitale del nord, era stata liberata da pochi giorni. Su di un altura, a un chilometro di distanza, una villa, una delle dimore di Alì il chimico, il fratellastro di Saddam Hussein, il gasatore dei curdi, il macellaio che nel ’91 aveva spento nel sangue la rivolta sciita. Dicevano fosse morto a Bassora due settimane prima sotto le bombe dell’esercito inglese. Di quella mattina ricordo quei cippi, un pastore irakeno e tanti dubbi. Se è una fossa comune, perché dividere i morti uno ad uno? E perché contrassegnare le tombe con dei cippi? La Cnn era già in diretta con la notizia di questo strano cimitero con centinaia di tombe. Io e altri cercavamo di capire. Quel pastore era cresciuto lì, aveva pascolato il suo gregge da quando aveva dieci anni. Doveva saperne qualcosa, ma non parlava. «Alì, Alì il chimico», ripeteva, e mostrava la villa deserta come se vedesse un fantasma.
Gli spieghiamo che Alì è morto, scomparso per sempre. Non deve più aver paura. Lui alza gli occhi al cielo, mostra la casa, ripete quel nome. Dubita. «Come potete esser sicuri che sia morto?». Ci rinunciamo. Ripartiamo con i dollari messigli in mano da un collega giapponese. Funziona. La storia salta fuori. I cippi segnano le tombe di soldati sconosciuti. Cadaveri restituiti dagli iraniani dopo la guerra e sepolti in attesa d’identificazione. In mezzo qualche fossa comune con le vittime di Alì il chimico. Curdi uccisi dallo stesso Alì. Il pastore ora racconta: «Gli faceva bere benzina, poi gli sparava un colpo alla pancia. Li vedevo esplodere…».
A nove mesi di distanza ciò che mi rimane più impresso di quella storia sono la paura e lo scetticismo di quel pastore cresciuto in quel terreno degli orrori. Quel pastore che mi ripete: «Chi mi garantisce che Alì il chimico sia morto??? Chi mi garantisce che non tornerà?». Aveva ragione lui… Alì il chimico non è mai morto a Bassora. È scappato incolume ed è stato catturato soltanto lo scorso agosto. Quel pastore cresciuto nel terrore si era dato una sola regola: «Nulla è vero finché non lo vedi con i tuoi occhi». Una regola fondamentale per sopravvivere in Irak. Ci penso sempre. È la mia regola per capire lo scetticismo degli irakeni quando gli raccontano che Saddam è alle corde, che la democrazia arriverà, che il passato non tornerà.
Ma oltre ai dubbi di quel pastorello questa volta mi porto dietro anche i miei dubbi. I dubbi su di una guerra preparata male, combattuta poco, mai pienamente vinta e assolutamente improvvisata nel suo stadio più difficile: quello della transizione alla pacificazione nazionale.
L’amministrazione Usa, sotto la spinta ideologica degli ambienti neocon e di personaggi come il vicepresidente Dick Cheney o il sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz, ha chiuso gli occhi teorizzando un mondo che non esisteva. In Irak hanno commesso almeno dieci peccati capitali.
Primo. Puntare su una Turchia governata dagli islamici moderati, con dei vertici militari contrari a facilitare la nascita di un’entità nazionale curda ed un’economia legata all’Irak. Non era difficile immaginare che la Turchia non avrebbe mai consentito il transito dei soldati americani. L’errore deteminò la mancata apertura del fronte nord. Di conseguenza non vi fu l’effetto tenaglia, capace di annientare i reparti ancora fedeli al vecchio regime. La vittoria fu imperfetta. Al nord nella zona di Mosul vidi interi reparti della Guardia Repubblicana combattere strenuamente e sciogliersi al sole nelle 24 ore successive. Dov’erano finiti? Semplice, avevano messo via armi e vite da destinare a tempi migliori. Che sembrano essere arrivati.
Secondo. Puntare solo sulle armi chimiche e sui legami di Saddam con il terrorismo per giustificare l’invasione. L’incapacità di provare entrambe le tesi sta minando la credibilità degli americani. Oggi qualsiasi arabo o islamico antiamericano ha un buon pretesto per dimostrare come quella guerra fosse solo una scusa per espandere il controllo americano su tutto il Medio Oriente.
Terzo. In un paese dove neppure un pastorello ignorante crede alla morte di Alì il chimico non si può pronosticare una rivolta dell’esercito. Nessun generale è uscito allo scoperto perché nessuno ha visto Saddam prigioniero, morto o catturato.
Quarto. Interrompere troppo presto le operazioni dichiarando la guerra finita e sottostimando la possibilità di un’insurrezione saddamista.
Quinto. Sciogliere l’esercito, cancellare dalla vita pubblica la gerarchia legata al partito Baath. Il paese è sprofondato nell’insicurezza. I trecentomila soldati licenziati da un giorno all’altro e le loro famiglie si sono trasformati in nemici, mentre potevano venir utilizzati per garantire la sicurezza nelle città. Lo stesso vale per il partito Baath. In una nazione governata per trent’anni da una dittatura i vertici di industria ed istituzioni non potevano che essere occupati da uomini di partito. Successe nell’Italia post-fascista e nella Russia post-comunista. Estrometterli significa decapitare un paese, privarlo di una classe dirigente, condannarlo alla disfunzione. Esattamente quel che sta succedendo.
Sesto. Non aver sigillato i confini. L’Irak oggi è un magnete per tutti i fondamentalisti islamici che sognano di uccidere gli americani. Una specie di Afghanistan degli anni Ottanta. Un ricettacolo del terrorismo internazionale.
Settimo. Non aver messo a punto un piano politico per l’immediato dopoguerra. Sono dovuti arrivare qui per accorgersi che gran parte dei loro alleati non contavano niente, erano per l’opinione pubblica irakena dei perfetti sconosciuti. Forse sarebbe stato meglio affidare la transizione ad un uomo conosciuto in attesa che nascessero dei veri partiti politici.
Ottavo. Pensare di poter gestire la situazione irakena avviando una politica di scontro frontale con l’Iran. La questione sciita, l’influenza iraniana e il potere dei servizi segreti di Teheran sono stati ampiamente sottovalutati. Colin Powell ci aveva pensato, ma poi è prevalsa la linea del Pentagono.
Nono. Aver dato retta ad Ahmed Chalabi e aver fatto troppo affidamento sulle informazioni fornite dall’opposizione irakena. Sembra incredibile, ma sta venendo fuori che la Cia ed i servizi segreti inglesi, privi di qualsiasi “infiltrato” all’interno del regime, si sono affidati totalmente alle informazioni passate da Ahmed Chalabi. Informazioni rivelatesi assolutamente inattendibili.
Decimo. Aver sottostimato i costi della ricostruzione. Mitch Daniel, direttore del Consiglio per la sicurezza nazionale (Nsc) e dell’ufficio del Bilancio stimò in circa 50-60 miliardi di dollari i costi della ricostruzione. Secondo lui le infrastrutture erano recuperabili e utilizzabili, mentre i proventi del petrolio avrebbero pagato la ricostruzione. Non era così. «Le raffinerie di petrolio non possono essere riparate, ma devono essere sostituite», ha detto il senatore repubblicano Lindsey Graham dopo la visita a settembre in Irak. Secondo uno studio della Rice University, «riparare il sistema elettrico e riportarlo alle sue capacità pre-anni Novanta costerà 20 miliardi di dollari». Rimettere in attività il settore petrolifero costerà 30-40 miliardi di dollari. A marzo Paul Wolfowitz disse al Congresso che i proventi del petrolio avrebbero garantito entro tre anni ricavi tra i 50 e i 100 miliardi di dollari. Oggi sappiamo che non produrranno alcunché quest’anno e, se tutto va bene, 12 miliardi il prossimo anno. Nel 2005 si raggiungeranno i 20 miliardi all’anno, ma solo se smetteranno i sabotaggi e i prezzi resteranno alti. Secondo il dipartimento Usa per l’Energia oggi l’Irak produce 1,65 milioni di barili di petrolio contro i 2,8 milioni di prima della guerra e i 3,5 milioni di prima degli anni Novanta.
Baghdad, 10 dicembre 2003
Il mio pessimismo è decollato quando all’alba di oggi ho attraversato la frontiera giordano-irakena. Non ci potevo credere. Finiti quelli giordani non c’è stato un solo controllo. Le guardie di frontiera erano ancora quelle dei tempi di Saddam, i gabbiotti e le infrastrutture esattamente le stesse. Un irakeno intabarrato in un cappotto sdrucito sfoglia il mio passaporto all’incontrario e bofonchia qualcosa al mio autista. Lui gli allunga una mancia di prammatica e passiamo. L’impressione è quella di entrare in un mondo post-conflitto nucleare. Gli americani non si vedono. Semplicemente non ci sono. La strada è un inferno di buche disseminato dai resti delle infrastrutture di confine andate progressivamente in rovina. Sconcertante. Mi chiedo quante migliaia di militanti fondamentalisti, spie, assassini, ladri e tagliagole abbiano attraversato questa frontiera in nove mesi. La notte è fredda. Gli autisti si radunano vicino ad un distributore sorseggiando un tè caldo, e attendono di formare un convoglio di almeno dieci macchine. «È più sicuro», dice l’autista. Degli americani neppure l’ombra. Mi sveglio dieci ore dopo nel tepore di Baghdad. C’è un’aria lurida infestata dall’odore di nafta dei generatori. L’albergo è una fortezza circondata da muraglie di calcestruzzo per evitare gli attentati. Fuori il traffico è un inferno roboante e fuori controllo. Dietro il calcestruzzo il cannone di un carrarmato punta la nostra auto. Qui vivono solo giornalisti e contractor. I secondi girano armati e con i giubbotti antiproiettile. Benvenuto a Baghdad.
Baghdad, 11 dicembre 2003
Cavolo, hanno preso Saddam. Non ci potevo credere, invece è vero. Q., uno dei miei traduttori, un ex giornalista di regime, è un uomo distrutto. Fissa la Tv, abbassa gli occhi. Sono umidi. La mano tiene il petto. Ferma un sussulto che sale dalle viscere, piglia la gola, esplode in singhiozzo gutturale. Si guarda attorno. Tutti gli occhi sono su quel tiranno addomesticato che apre e chiude la bocca come un vecchio al pronto soccorso. Come un barboncino davanti alla museruola. Saddam prigioniero, Saddam piegato, Saddam senza barba. Due minuti, forse meno. Per Q. un tormento che rivolta la vita. Quarantacinque anni da suddito, da giornalista di regime, non ancora consegnati al passato. Fino a quelle immagini. Q. si alza, cammina silenzioso. Un minuto, poi s’arrabbia. «Ma come ha fatto, come ha fatto a farsi catturare così? Suo figlio Uday forse era un pazzo, Qusay era un disperato, ma almeno hanno combattuto, sono morti con le armi in pugno. Lui si è fatto prendere come un topo, nascosto in un buco. Poteva suicidarsi invece è strisciato nel fango, si è coperto di terra». Q. sputa per terra, è uno scatarro profondo, un grumo di rabbia e indignazione. Con il piede rigira la macchia di saliva, la trascina nella polvere. «Era meglio se non lo tiravano neanche fuori, se lo ricoprivano di terra e lo lasciavano là sotto. Ci risparmiavano l’ultima umiliazione». Prima di andarsene, stasera Q. è venuto da me e mi ha detto: «Da domani gli americani hanno una grande occasione, vediamo se stavolta riusciranno a non farsela scappare».
«Vediamo…», gli ho risposto, e ho capito che avrebbe voluto qualche certezza in più. Tutti in questo paese disastrato cercano certezze, manca chi le sappia dare. Anche in questo giorno straordinario.
Ad Daur, 15 dicembre 2003
L’ultima tana del tiranno è cinquecento metri davanti a noi, tra un sentiero e una macchia di alberi. Intorno, le ultime propaggini di Ad Daur, i bambini che corrono nei campi, gli adulti e i loro occhi senza espressioni. Gli elicotteri calano davanti, scaricano la serie A. Gli embedded, le telecamere dei grandi network e dei grandi quotidiani americani. Il capitano Mugger continua a promettere: «Prima o dopo ci sarà spazio anche per voi». Intende noi, i giornalisti del secondo turno, quelli arrivati con i loro mezzi. Va così. Va che fai prima a vedertela per televisione quella tana, dopo sei ore passate sotto la pioggia. Ma intanto capisci molte cose. Che aria tiri da queste parti lo comprendi al posto di blocco all’entrata della cittadina. Una palazzina di cemento, un’auto con il parabrezza sfondato sotto una tettoia, un gruppo di poliziotti irakeni armati. Buttati sul sedile dell’auto, due uomini insanguinati con divise nere. Molto simili ai “feddayn Saddam”. Non fiatano, non si lamentano. Attendono soltanto. Leti Sailh, il capo dei poliziotti, ti fa spostare. Qualcuno muove l’automobile. «Sono altre due vittime del caos. Da quando non c’è più lui è pieno di morti e feriti, vittime dei banditi, vittime degli americani che sparano su chiunque si muova. Quando c’era lui c’era ordine e tutto funzionava», blatera il comandante Leti.
Lui, Saddam, l’hanno preso cinque chilometri più in là, tra quel quel grumo di case e il fiume. La chiamano Ad Daur, una virgola sulle carte geografiche, la fine di un’epoca sui futuri libri di scuola. Ma qui, in questo primo assaggio di città, l’epoca di Saddam sembra tutt’altro che finita. «La cattura del nostro presidente mi ha dato solo dolore», ti racconta questo strano capo poliziotto che dovrebbe collaborare con gli americani e con il Consiglio di governo. La macchina con gli strani feriti è scomparsa. Il comandante Sailh ora ha fretta. «Qui ad Ad Daur nessuno ha tradito il presidente, forse l’hanno ospitato, aiutato, ma non certo tradito». Ad Daur è un’infilata di basse palazzine ed una strada. Più in là, ad occidente, le anse del Tigri, i viottoli sperduti nei campi, una moschea e una radura diventata accampamento americano. Qui il dittatore fattosi topo, il tiranno catturato in una tana, aveva un vantaggio di almeno 44 anni. Iniziò tutto nel ’59. Saddam aveva 22 anni ed una pallottola nella gamba. Aveva appena sparato al primo ministro, i suoi camerati golpisti erano stati tutti catturati o uccisi. Lui era già qui, venti chilometri a sud dalla sua Tikrit. Già in fuga. Si buttò nelle acque del Tigri, l’attraversò a nuoto, raggiunse il confine siriano, riparò in Egitto. «Quando tornò e conquistò il potere tutta questa regione cambiò nome e diventò Al Hubur, l’“attraversamento”. Lui ci tornava spesso, amava questo fiume che gli ricordava la gioventù, la conquista del potere». Mathan Abud te lo racconta e gli occhi gli luccicano d’orgoglio. Ha una storia da raccontare. Ti spinge in un viottolo, ti scorta ad un’abitazione che sembra un palazzo. Non muri rattoppati di cemento, ma facciate decorate. Tre piani di opulenza in un mare di grigiore. È vuota, deserta. C’è un varco nel cancello, sbarre tagliate, dilaniate e una cornice nerastra attorno. Oltre, un cortile e un paio di scarpe abbandonate. Sabato la cattura di Saddam è iniziata qui nell’abitazione della famiglia Namq. Mathan abita due porte più in là, ha visto tutto. «Gli americani sono arrivati alle otto di sera. Erano cinquanta, forse più, hanno fatto saltare la cancellata e sono saltati dentro. Quando sono usciti si sono tirati dietro Alial e Jasan. Loro padre ha ottant’anni, ha avuto un colpo al cuore. Adesso chissà dov’è».
La tranquilla famiglia Namq era anche la proprietaria dell’ultima tana di Saddam. Alial, 30 anni, e Jasam, 22, sono i due oscuri lacchè arrestati assieme al dittatore sotterrato. Sono stati loro a sigillargli l’ultima tana, a seppellirlo in quella catapecchia abbandonata in mezzo alle loro coltivazioni. Complici, delatori o cacciatori di taglie? «Solo bravi ragazzi, figli di una famiglia di patrioti – sbotta Mathan – che hanno avuto l’onore di offrire l’ultimo rifugio al nostro grande presidente».
Nel racconto di Mathan è nascosto l’arcano dell’ultima fuga del dittatore. Un arcano iniziato nell’ottobre del 1959. Jassem Namq a quel tempo ha 36 anni, sta lavorando i campi. Incontra quell’uomo ferito in fuga che implora un giaciglio per la notte, gli apre la porta della sua baracca, gli offre un piatto caldo. Saddam Hussein è appena sopravvissuto al suo primo complotto, fuggito con una pallottola nella gamba. «Jassem non gli chiese niente, fece solo quello che avrebbe fatto qualsiasi arabo: gli aprì le porte di casa, gli regalò ospitalità per la notte», racconta Mathan. Quella notte nella baracca cambiò la storia dell’Irak, e disegnò il destino della futura cattura del dittatore. La mattina dopo Saddam Hussein attraversò a nuoto il Tigri, raggiunse Hawya, il suo villaggio natale, e da lì la Siria e l’Egitto. Quando ritornò anche la vita della famiglia Namq cambiò. L’ospitalità di una notte si trasformò in denaro e potere. Il fazzoletto di terra s’allargò fino a diventare una fattoria di cinque ettari e Jassem lasciò la sua baracca in riva al fiume per costruire la grande casa in paese. Qais, il suo figlio più anziano, venne nominato responsabile delle cucine del palazzo presidenziale di Tikrit. La fortuna dei Namq crebbe ancora di più quando Ezzat Ibrahim Al Duri, un venditore di ghiaccio membro dello stesso clan, divenne vicepresidente. L’intrico del potere irakeno giocato in un groviglio di parentele e rapporti tribali germogliò e crebbe su questi venti chilometri di campagne tra Tikrit e Ad Daur. Fino alla guerra, fino alla caduta. Fino a pochi giorni fa, quando qualcuno torna a bussare all’abitazione di Jassem Namq. Quarantaquattro anni dopo i due uomini sono di nuovo di fronte. Saddam di nuovo in fuga, di nuovo braccato. Jassem nel letto con quel cuore azzoppato, la vita agli sgoccioli. Saddam ripete la stessa domanda, Jassem dice di nuovo sì. La porta della baracca in riva al Tigri si riapre. Il destino chiude per sempre il suo corso.
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