La conquista della ristorazione, l’Inter dei record, il ristorante per nuovi poveri. La bella storia di Ernesto Pellegrini

Di Caterina Giojelli
04 Gennaio 2015
Dalla domanda di aiuto che un infaticabile contadino gli ha piantato nel cuore è nata la Fondazione Pellegrini e il ristorante solidale Ruben

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Racconta che «una domenica arrivò in cascina un suo nipote, tutto vestito a festa, per chiedere a Ruben in quale banca tenesse i suoi risparmi. “Io non ho una banca, e i soldi li ho consegnati ai due osti di Morsenchio: vai a chiederli a loro”. Non rendendosi conto di essere stato preso per il bavero, questi fece il giro dei due osti sentendosi rispondere che lo zio i suoi risparmi li aveva “investiti” in polli e vino». Già, polli e vino. Imprevedibili alfa e omega di un moderno Canto di Natale in cui trovano posto contadini coi geloni alle mani e imprenditori dal cuore grande, mute baracche ghiacciate e stadi che esplodono di gioia, bambini che nascono e padri che perdono il lavoro, pasti caldi, coppe e medaglie, titoli sui giornali.

Ernesto Pellegrini – proprio lui, presidente dell’omonimo impero della ristorazione italiana e indimenticato patron dell’Inter dei record – la racconta così, la sua storia piena di vita e popolata da brava gente cresciuta in un campo: di calcio o di grano poco importa, perché per Pellegrini non c’è scampolo di Milano, stadio o cascina, mensa o tavola troppo piccola per ospitare le gioie e i dolori di un’intera, grande città e dove tutti, primi e ultimi, giocano all’ombra della stessa Madonnina.

Il pollo domenicale annaffiato con un bottiglione di vino: la sua storia oggi inizia con l’immagine festosa di Ruben, il contadino di Cremona forte come le erbacce di campagna, che sgobbava da mattina a sera nei campi, andava a prender Messa, dormiva sulla paglia e leggeva libri di storia liquidando i ragazzini allevati in batteria nella cascina di via Bonfadini, periferia est di Milano, con un “ti te se gnurant”. Tutti tranne il giovane Ernesto, che cresceva tra gli orti di Taliedo e studiava ragioneria al Verri: Ruben, che tutto quello che aveva stava bell’appeso su tre chiodi nella stalla, lo apostrofava come un gran signore, dandogli del lei e imbarazzandolo non poco.

«Avevo vent’anni, una bici scassata e guadagnavo 55 mila lire al mese come contabile alla Bianchi quando furono espropriati i terreni della cascina. Da che avevo memoria Ruben era sempre stato lì, lavorando per mio nonno, mio padre e poi per me e mio fratello Giordano. Non sapevo dove sarebbe finito, ma mi ripromisi, una volta sistemato, di aiutarlo. Non feci in tempo. Un giorno, uscendo dal lavoro, lo ritrovai sul giornale: “Barbone morto assiderato nella sua capanna”». Che cosa ho perso, si chiese Pellegrini, quella notte, tra i fiocchi di ghiaccio che turbinavano dal cielo nero di Milano?

ernesto-pellegrini-inter-ruben-milano1«Non voglio più soldi, ma più lavoro»
Ernesto Pellegrini voleva essere qualcuno. E qualcuno per le persone cui voleva bene doveva diventare in fretta, ora che suo padre non c’era più e che viveva con la madre e il fratello in un alloggetto popolare. Tutt’altro che inconfessabile, fu proprio la voglia di emergere che lo portò a chiedere al suo responsabile una volta promosso capocontabile: «Io non voglio più soldi ma più lavoro. Vedi? Sono a metà turno e ho già finito». Pellegrini fu messo in contatto col commissario interno, «chiacchieravamo parecchio, la sua donna faceva la cuoca e cercava lavoro: così mi affidò la gestione della mensa della Bianchi». Quello che accadde dopo è storia: sono gli anni del boom e Pellegrini intuisce le dimensioni che avrebbe avuto un business legato alla ristorazione in aziende, fabbriche e luoghi di lavoro. Con 150 mila lire intascate a titolo di incentivo dal capo, il rampante Pellegrini, figlio di ortolani, tenta l’impresa. E finisce per costruire un impero.

Nel 1965 nasce l’Organizzazione Mense Pellegrini; nel 1975 la Pellegrini spa; nel 1979, per seguire le aziende italiane all’estero, Pellegrini conquista i paesi arabi e africani del Mediterraneo con la Pellegrini Catering Overseas SA; nel 1982 nasce il Gruppo Pellegrini. La grande dimensione immaginata dal giovane Ernesto a metà degli anni Sessanta diventa in fretta una realtà che ancora oggi, alle soglie dei cinquant’anni, con 7.500 dipendenti in Italia e 1.500 all’estero, 500 milioni di euro di fatturato e un modello che, con divisioni dedicate a ristorazione collettiva, buoni pasto, pulizie, servizi integrati e distribuzione automatica, dall’Italia al Mozambico continua a crescere e a dare lavoro a migliaia di persone.

E in mezzo? In mezzo c’è sempre lui, Ernesto Pellegrini, che è un uomo di testa e numeri ma anche di cuore e fede, cristiana e nerazzurra. Per questo la gestione dell’albergo di Villar Perosa che ospita in ritiro la Juventus gli è indigesta: «Caro presidente – scrive nel dicembre del 1979 a Ivanoe Fraizzoli, patron dell’Inter – mi permetta di dare un contributo ai successi della mia squadra». Pellegrini viene “convocato” e arruolato nel consiglio, pochi anni (e una corte discreta a Fraizzoli) dopo, l’8 gennaio 1984 viene incoronato diciassettesimo presidente della storia nerazzurra. Nel Gotha di un calcio sempre più internazionale, feudo di una Milano che snobba i suoi figli cresciuti negli orti, Pellegrini tira fuori la grinta e «come i bravi ragazzi di una volta, non si presenta a mani vuote. Arriva all’Inter e annuncia fiero: “Ho comprato Kalle Rummenigge!” – scrive Luigi Garlando in Ora sei una stella –. L’Avvocato ha fatto di tutto per portarlo alla Juve. Non c’è riuscito. Il suo cuoco sì».

ernesto-pellegrini-inter-ruben-milano4Leggenda vuole che Agnelli avesse commentato proprio così il ribaltone, «il nostro cuoco è diventato presidente dell’Inter», verità è che tra il tedesco con «le cosce di Meazza, il coraggio di Bonimba e gli occhi di Giacinto» e il presidente «dalla volontà di ghisa» ancora oggi c’è stima e rispetto, telefonate e scambi di auguri via sms. Il resto sono dieci anni di storia dell’Inter, quella dei record, la grande armata del Trap, il trio tedesco Matthäus-Brehme-Klinsmann, Nicolino Berti, l’Uomo Ragno, l’Aldone Serena e lo Zio Bergomi. In mezzo, ci sono le gioie e i dolori. Successi e fallimenti. Gli amici e i nemici. Sul passaggio di mano nel 1995 a Massimo Moratti restano alcuni segreti che Pellegrini promette di svelare in un libro che uscirà l’anno prossimo.

Quel giorno il Cavaliere del lavoro Ernesto Pellegrini – onorificenza riconosciutagli nel 1990 – perse la sua amata Inter. Ma ritrovò qualcosa che ancora oggi ha a che fare con una vita in cui c’è posto per una fede capace di gol memorabili. E immagini indelebili. Sua moglie Ivana che tiene in braccio la piccola Valentina e il suo orsacchiotto mentre chiacchierano con il presidente della Repubblica Sandro Pertini nel 1985. L’incontro con Giovanni Paolo II nel 1992. La festa con il Trap per lo scudetto del 1989. La nomina, l’anno dopo, a Cavaliere del lavoro da parte di Francesco Cossiga. L’abbraccio con l’eterno amico e rivale Silvio Berlusconi nel 1995. E ancora loro, Ivana e Valentina che sorridono e questa volta non siedono vicino a capi di Stato, pontefici o stelle del calcio. È il 2014, e questa volta la famiglia Pellegrini si prepara a ricevere qualcuno di molto atteso, «qualcuno dei tanti Ruben».

ernesto-pellegrini-inter-ruben-milanoA tavola, nel quartiere del Cerutti
Si dice che ognuno abbandoni un po’ della sua vita dovunque passi, e un po’ della sua vita al Morsenchio Pellegrini la ritrovava, come si ritrova un amico, nei volti dei tanti a cui, da buon imprenditore e cristiano, si ritrovava a tendere la mano. Sempre di più. Colleghi improvvisamente senza più lavoro. Padri incapaci di provvedere ai propri figli. Uomini e donne con lavori saltuari e famiglie troppo numerose da mantenere. Ex detenuti, stranieri in attesa del riconoscimento dello status di rifugiati. Parenti al seguito di malati in cura a Milano, privi di mezzi per provvedere alle necessità della trasferta. I volti dei “nuovi poveri”, come li ha ribattezzati la crisi, iniziarono a popolare i pensieri di Pellegrini come i fiocchi di quella notte di metà inverno durante i favolosi anni Sessanta. Sembrava la notte dei miracoli, ma quella notte il vigoroso cuore di Ruben si fermò e piantò una domanda grande così nel cuore del giovane Ernesto. Per 49 anni aveva ricevuto una targa dai suoi dipendenti, “al prossimo traguardo”, “a un altro successo”.

Finché, esattamente un anno fa, sotto Natale, Pellegrini capì che era il momento buono per «ringraziare il buon Dio del tanto che ho avuto dalla vita. E ho voluto farlo partendo da quello che so fare meglio: ristorare le persone, dar loro un momento di nutrimento e conforto; due cose che mi sembrano particolarmente preziose». Annunciò la nascita di una Fondazione, si circondò degli amici più fidati, come l’imprenditore Giuseppe Orsi, e delle persone più care: la moglie Ivana, la figlia Valentina, oggi vicepresidente del Gruppo Pellegrini, e suo marito Alessandro Ermolli. E offrì il primo frutto della sua onlus «a una persona che, nella mia infanzia e nella mia gioventù, ha avuto per me una grande importanza: Ruben».

Ottobre 2014: via Gonin è una lunga strada del Giambellino, periferia ovest di Milano. Quello del Cerutti Gino di Gaber, dei bar, delle case popolari, delle grandi fabbriche. E dei carrozzoni che ospitavano i senza tetto. Davanti al civico 52 da un paio di mesi si raduna ogni sera un drappello di uomini, donne e bambini. Italiani e stranieri, qualificati e non, single e capifamiglia che hanno perso il lavoro e rischiano di perdere la casa. Persone in situazione di difficoltà e fragilità economica che hanno chiesto e trovato aiuto nella rete costruita dalla Fondazione Pellegrini con i centri di ascolto delle fondazioni, delle parrocchie, le realtà del Terzo settore, i servizi sociali. Vengono per mangiare a una mensa che non è una mensa: diversa perché aperta a “quel” territorio e a “quelle” famiglie, diversa perché permette a ognuno di scegliere cosa mangiare e diversa perché permette a ciascuno di pagare il suo pasto al prezzo di 1 euro. Diversa perché Pellegrini non invita questa brava gente a una mensa. Porta i suoi ospiti al ristorante: il ristorante Ruben.

ernesto-pellegrini-inter-ruben-milano5Cinquecento coperti al giorno su due turni, dal lunedì al sabato: ci sono i volontari che servono al tavolo, parlano con gli anziani, imboccano i più piccoli, e ci sono le mamme e i papà, i nonni e i ragazzini di ogni età che a guardarli chiacchierare di scuola e Natale davanti a bistecche e patatine non pensi che a una normale sera speciale festeggiata a tavola e in famiglia. Il posto è bello, il cibo è buono, e poi l’occasione è davvero speciale: due mesi di cene, il tempo per tirare il fiato e ritrovare fiducia e dignità. E poi via, di nuovo in carreggiata ma più contenti e con qualche prezioso amico in più con il quale condividere un pezzetto di vita apparecchiata a tavola, perché è lì che nascono le più belle storie di paese e chissà che proprio di questo non abbia ancora bisogno la grande Milano.

Il 7 dicembre scorso, per il suo impegno nel campo della solidarietà cittadina, su indicazione del sindaco di Milano Giuliano Pisapia e del patron rossonero, Silvio Berlusconi, Ernesto Pellegrini riceve l’Ambrogino d’oro, il sigillo di un popolo in cui il benefattore – lo insegna la grande storia di Milano, dei Marcello Candia e degli Emilio Grignani – non è mai estraneo al poveraccio e l’elemosina insegnata dalla Chiesa è la prima richiesta di perdono, allargamento del cuore, il proverbiale “coeur in man” che diventa donazione, di cibo e di sé. Questo forse non l’avrebbe potuto immaginare un capocontabile alla Bianchi, ma certo molto aveva già intuito Ruben. Ruben che non ha più freddo e intona quel cantico di Natale iniziato tanti e tanti anni fa.

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