La diplomazia delle bombe

Di Gian Micalessin
04 Ottobre 2007
Seminare la paura e fare eleggere il presidente giusto. Damasco sa come riportare indietro l'orologio della storia con l'antico feudo. E non perde tempo

L’appuntamento per votare è per il 23 ottobre. Quello per il grande salto nel vuoto solo un mese dopo. I destini del Libano si giocano in quei trenta giorni. Se dal 23 ottobre al 24 novembre, data di fine mandato dell’attuale presidente Emile Lahoud, il Parlamento non troverà un accordo sul nome del successore il paese rischia la paralisi. Emile Lahoud, vassallo uscente di Damasco, ha già annunciato i suoi piani. Se non si troverà un compromesso sul nome del suo successore imporrà lo scioglimento del governo di Fouad Siniora e incaricherà l’attuale capo di stato maggiore generale Michel Suleiman di guidare un esecutivo di transizione incaricato di modificare la legge elettorale e indire nuove elezioni.
Il piano è chiaro. Il generale Suleiman ereditò il controllo dell’esercito dallo stesso Lahoud quando, nel ’98, l’ex generale venne scelto da Damasco come presidente del Libano. Mettendo fuori gioco il governo di Fouad Siniora, espressione della maggioranza anti-siriana vincitrice delle elezioni del 2005, Lahoud pensa di poter riportare indietro l’orologio della storia. Sogna di trasferire la poltrona al proprio clone e riconsegnare alla Siria il controllo del paese. In caso di mancata elezione del presidente entro i termini prestabiliti, la Costituzione prevede il passaggio dei poteri istituzionali al primo ministro, ma quel cavillo istituzionale non preoccupa Lahoud. Ha già fatto sapere di considerare illegittimo il governo di Siniora, colpevole di non aver accettato il ricatto dei ministri sciiti convinti – dopo aver abbandonato il governo lo scorso novembre – di potervi rientrare di forza imponendo il diritto di veto su qualsiasi decisione. Lahoud non si scompone troppo neppure per il rifiuto del generale Suleiman di accettare i suoi piani. In fondo è solo “bon ton” esibito nella speranza di agguantare la massima carica istituzionale imponendo un compromesso alla maggioranza antisiriana. Il grande artefice del ricatto è il presidente del parlamento Nabih Berri. Da un anno a questa parte tiene chiusa l’assemblea, sorveglia come uno zelante portinaio il cancello d’ingresso del parlamento.
Con lui Fouad Siniora e il governo devono raggiungere l’inconfessabile accordo sul nome del successore di Lahoud; altrimenti il controllo di 68 parlamentari su 128 non conta nulla. Per riunire il parlamento è necessaria la presenza di almeno due terzi dei deputati, dunque il 24 ottobre  anche la minoranza dovrà sedere sui propri seggi. La necessità di quello stesso “quorum” per l’elezione del presidente è invece materia di discussione. La Costituzione lo prescrive solo per il primo voto, ma la consuetudine ricorda che nessun presidente è stato eletto senza il consenso di almeno due terzi dell’Assemblea. Quanto basta per screditare un candidato del governo nominato a maggioranza semplice. Quanto basta per seminare il germe della guerra civile. E Damasco – in Libano lo sanno tutti – saprebbe farlo. Da quella poltrona dipende in fondo il futuro della Siria, il destino del presidente Bashar el Assad e il controllo dell’Iran sull’asse sciita che attraversa l’Iraq e s’affaccia sul nord d’Israele.
La stagione delle stragi e degli assassinî iniziò proprio nel settembre 2004, in coincidenza con la scadenza del primo mandato di Emile Lahoud. Damasco voleva a tutti i costi mantenere al potere quell’uomo, prorogarne di tre anni il mandato, contrastare i disegni del primo ministro Rafic Hariri e di quanti nel suo governo incominciavano a sognare un futuro senza l’ingombrante padrone. Quando ai primi di settembre Rafic Hariri e quattro ministri abbandonarono il governo la vendetta siriana non si fece attendere. La prima bomba  ridusse in fin di vita Marwan Hamadeh, ministro dimissionario per l’economia e poi toccò ad Hariri. Oggi la situazione non cambia. Anzi per la Siria cacciata, umiliata e messa sotto accusa dall’Occidente mantenere il controllo sulla poltrona presidenziale è ancora più importante. Regalarla alla coalizione del governo di Siniora significa rinunciare alla postazione chiave per il controllo del paese, di importanti settori delle forze armate e di vasti settori deviati, o meglio mai allineati, dei servizi segreti. Senza quella poltrona non sarebbe più possibile, ad esempio, respingere il decreto del governo per il trasferimento a una Corte internazionale dei poteri d’indagine e giudizio sull’assassinio Hariri.

Come negli anni di Hariri
Il voto presidenziale è dunque una formalità da concordare con la forza o con la trattativa. L’eliminazione del deputato cristiano Antoine Ghanem, dilaniato da un’autobomba il 19 settembre, ne è stato l’ennesimo segnale. Il suo assassinio ha portato a tre il numero dei deputati di maggioranza messi fuori gioco in un solo anno ed ha ricordato agli esponenti antisiriani che l’antico nemico è pronto a rettificare la composizione parlamentare a colpi di bombe. Ora resta solo da trovare l’accordo. I candidati di facciata a questo punto sono fuori gioco. La coalizione siriana ha volentieri sacrificato Michel Aoun. Il generale cristiano in nome del sogno presidenziale ha tradito il proprio passato abbandonando la coalizione antisiriana, dividendo il campo maronita e accettando un abbraccio contro natura con Hezbollah e quegli amici di Damasco che a suo tempo gli imposero un esilio di tre lustri.
Sul nome del traditore Aoun era impossibile pretendere un compromesso, impossibile ottenere il sì delle fazioni maronite schierate con Siniora. Damasco lo sa e in fondo gli va bene perché chi ha tradito una volta può farlo ancora. Costretta a pescare nel paniere cristiano, come impongono le rigorose regole costituzionali, la Siria preferisce puntare tutto sul generale Michel Suleiman. Certo per farlo eleggere mentre è ancora capo di stato maggiore ci vorrà un emendamento costituzionale, ma poco importa. Se si riuscirà a far digerire il suo nome alla maggioranza, ottenere poi l’emendamento sarà facile. Una bazzecola di fronte all’impresa di essere riusciti a legittimare come nuovo presidente il perfetto clone del vassallo Emile Lahoud.

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