LA DITTATURA DEL GODIMENTO DEL MODELLINO ZAP.-DE SADE

Di Mario Binasco
07 Luglio 2005
QUALE NESSO TRA LE 'RIFORME' DEL GOVERNO SPAGNOLO E LA REPUBBLICA DI DE SADE? L'IDEA CHE IL DIRITTO E LA SODDISFAZIONE SPICCIOLA SIANO UNA SOLA COSA A PRESCIDERE DAL LEGAME CON L'ALTRO

Non ho potuto fare a meno di notare la coincidenza: l’approvazione della legge zapateriana che abroga dal diritto statuale il matrimonio come rapporto privilegiato con l’altro sesso, è arrivata proprio mentre sta girando nei cinema italiani un film, L’educazione sentimentale di Eugenie, tratto dalla Filosofia nel boudoir del marchese de Sade, da lui pubblicata nel 1795, durante la Rivoluzione francese. È una coincidenza curiosa, ma che non stupisce, tanto la logica dei discorsi di Sade e quella abrogazionista, sia zapatera che nostrana, sono convergenti se non coincidenti. Il regista ha avuto il pudore di intitolarlo Educazione sentimentale e insieme la spudoratezza di sostenere che «in tempi di oscurantismo e di guerre di religione questa è la chiave giusta per vivere la sessualità» e poi che «la sua (di Sade) visione di una sessualità legata alla natura, senza limiti, è tuttora rivoluzionaria. Di certo è molto più attuale di Ratzinger e della Chiesa che propone una morale immutata nei secoli». Chissà se nel film ha il fegato di raccontarcela tutta la visione di Sade, senza edulcorarla alla Capezzone («Tanti bei bambini nati e tanti bei malati curati»).
Per chi non lo sapesse, la Filosofia nel boudoir è sì un racconto pornografico a tripla X, ma che è continuamente inframmezzato da discorsi ‘filosofici’ che espongono la teoria insieme morale e politica di Sade: il più lungo di questi discorsi è intitolato ‘Francesi ancora uno sforzo se volete essere repubblicani’, ed è un’esortazione ai francesi ad abrogare la condanna penale di adulterio, incesto, assassinio, stupro, furto, calunnia, aborto, infanticidio, ecc. Il crimine, infatti, è del tutto naturale, perché corrisponde al desiderio dell’uomo, e dunque lungi dal contrariare la società Repubblicana, le farebbe un gran bene, perché corrisponde alla logica che la fonda. Ciò dovrebbe avvenire rifiutando l’«infamia da imbecilli» nota come cristianesimo, con il suo stolto culto della persona, dell’amore del prossimo ecc. Insomma, di tutto ciò che c’è di più innaturale. La natura per Sade se ne infischia della persona: le mette dentro dei desideri che la fanno muovere, ma non dei limiti (che sono antinaturali), cosicché il desiderio serve solo alla ricerca di un godimento soltanto distruttivo. Perché la Natura è essenzialmente distruttiva, si serve del desiderio per distruggere e poi ricreare senza alcun senso.
Lacan sintetizza così la legge fondamentale su cui si fonda la società sadiana: «Chiunque può dirmi: ho il diritto di godere del tuo corpo e questo diritto lo eserciterò senza che alcun limite mi possa fermare nel capriccio delle esazioni che mi venga in mente di soddisfare». Siamo nella logica dei diritti dell’uomo e della libertà: il diritto ha espressamente come contenuto il godimento; quanto alla libertà, essa viene affermata con decisione, ma soprattutto come libertà dell’altro che ha diritto di godere di me indipendentemente da quello che voglio io; diritto al quale io non posso oppormi. È la libertà dell’altro, non del soggetto: anch’io godo di quel diritto nei confronti di una terza persona rispetto alla quale sono ‘altro’. Chi è allora il cittadino? È il soggetto o è piuttosto l’altro? Diremo: «spagnoli, ancora uno sforzo per essere ciudadani»?
la negazione del reale
La questione dell’omosessualità portata al livello di rivendicazione politica (gay pride, matrimonio ecc.) è solo uno dei casi in cui si vede che è in atto nella nostra società quella identificazione sadiana di morale e politica operata attraverso il tritacarne dei diritti soggettivi come diritti al godimento. Un esempio soft? L’indiscutibile diritto politico che è diventato l’imporre al prossimo l’esibizione oscena del tuo godimento, sotto il trucco del diritto all’espressione: rivendicato in chiaro nei cortei alla Gay Pride, ma anche sotto traccia in tutto ciò che riguarda l’offesa al pudore nella nostra società. Sappiamo bene che inevitabilmente chi infrange il proprio pudore, viola immediatamente anche quello dell’altro (come l’esibizionista dimostra). Per questo tutti i tentativi di abrogare istituti che nominavano e orientavano l’identità, cioè il rapporto intimo del soggetto con la differenza da se stesso che lo rende umano (la differenza che è l’altra persona, la differenza che è l’altro sesso, la differenza da sé che è il suo corpo, con la sua struttura e i suoi guai), e cioè il fondo di se stesso, la sua origine, la sua verità intima, mettono in questione brutalmente il legame sociale e politico che abbiamo con gli altri: perché la gente comincia a chiedersi se è al mondo o se è ‘cittadina’ o concittadina solo per subire i contraccolpi dei ‘diritti’ – e cioè dei gusti esibiti e incassati – degli altri.
La gente non si sente toccata o lesa nell’avere (come se l’altro le avesse leso un possesso), ma nell’essere, nella propria identità e nei nomi, nelle parole e nelle leggi che in ogni civiltà umana servono a ciascuno per situarsi, e orientarsi, dentro un reale che non ha fatto lui, che lo precede e che custodisce il mistero della sua origine. I nomi e le parole della civiltà servono a fare i conti con questo mistero del reale dell’uomo, e anch’essi ci precedono e ci permettono di strutturare i nostri legami con gli altri e con noi stessi, perché l’essere nessuno se lo dà. Intervenire arbitrariamente su questa istituzione famigliare, come se sapessimo che cos’è, come se fosse un artificio sostituibile con un altro artificio, riduce tutti i discorsi e le azioni umane a puro bla bla senza rilevanza, e nega il dramma del rapporto dell’uomo col reale.
Colpisce che non ci si accorga che il modellino, il plastico, di una società fatta così come un esperimento tecnico scientifico, l’abbiamo già conosciuto, ed è il campo di concentramento. Anche lì tutti uguali, via i rapporti privilegiati e famigliari, via i segni dell’appartenenza ad Altro (carta, penna, segni religiosi o politici), via i nomi, quegli artifici a cui scioccamente ci si ostina ad agganciare la propria futile identità: rappresentati solo da un numero, fantasticamente privo di sesso. Tutti diritti uguali, pochi, anzi in fondo uno solo: il diritto di morire.
Certo accanto alla versione hard ci sono anche versioni soft del campo di concentramento. Pensiamo a certi servizi medici e ospedalieri: ma la logica è quella, quella per cui l’altro ha diritto di fare il suo mestiere e di trattarti di conseguenza: all’occasione trattarti come un morto che cammina. Una volta si diceva: siamo liberi finchè la nostra libertà non lede quella degli altri, non incontra così un limite. Ma questo presuppone che la libertà si misuri su scelte di vita. Oggi, quando mai capita di sentire dire o giudicare che questo limite è stato superato, che la nostra libertà è stata lesa? Si sente invece ogni volta negare che questa lesione sia possibile e che questo limite si possa determinare: e il diritto dell’altro è posto in modo talmente assoluto e intangibile che ogni limite lo lederebbe. Appunto: parlare in nome della propria vita impedirebbe all’altro di fare il suo mestiere, di esercitare il suo diritto, che siccome è uguale al mio, diventa subito più uguale degli altri.

Siamo così lontani da Sade?
La Repubblica di Sade è quella in cui il soggetto si riduce ad essere lo strumento del godimento dell’altro, il che, tra l’altro, è la formula della perversione. In questo senso la nostra società della perversione generalizzata ufficializzata a livello politico non ne è molto lontana. Anche in questo caso, il problema non è che la società promuova qualche perversione o che la lasci promuovere, ma che voglia fondarsi sulla cancellazione, sulla abrogazione del concetto di perversione. Non c’è alcun moralismo, neanche di tipo medico, nel dire questo, ma solo una considerazione oggettiva e strutturale: abrogare per legge il concetto di perversione (è già successo nel manuale psichiatrico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) significa che non si può più distinguere tra etiche del godimento ed etiche del desiderio, e dunque, socialmente e culturalmente, tra rapporti sadiani orientati a vivere di sfruttamento, di esazione del godimento, e rapporti orientati a piuttosto a vivere di desiderio, a preservare e rilanciare il desiderio come rimando ad Altro e condizione della umanizzazione e della vivibilità dei rapporti compreso, insisto, anche quello con se stessi (nella tradizione cristiana si chiama vocazione). Forse sarebbe preferibile parlare di dittatura del godimento, piuttosto che di dittatura del desiderio, perché il desiderio non si può comandare, mentre il godimento sì; il godimento è quando si passa all’incasso della cambiale del desiderio, quando il desiderio cessa di essere segno e rimando, movimento, e si specifica secondo un oggetto, come ‘desiderio di qualcosa’, ponendosi come fine a se stesso perché non c’è altro da attendersi. L’etica dei rapporti famigliari, per esempio, è da sempre un’etica del desiderio, per il ruolo che gioca in essa la castità del rapporto, il divieto dell’incesto, la paternità, l’apertura sull’Altro che il figlio incarna, ecc. E non è un caso che l’ascesa della politica sadiana sottoponga la famiglia a dura prova. Un altro esempio di rapporti fondati su un’etica del desiderio è la comunità cristiana: anche in essa è evidente che i rapporti si fondano su Qualcosa che è sì presente, ma misteriosamente, perché è insieme atteso e al di là di ogni controllo e padronanza, col quale si può essere in rapporto solo rispondendo a un amore che non ha paura del reale (carità). Un altro esempio sono le relazioni di cura, non ultima quella psicoanalitica, oltre a quelle mediche e a quelle educative.

NON FARE AGLI ALTRI…
Si potrebbe obiettare: come si fa a dire che il sistema dei diritti è sadiano e che sancisce il diritto a godere di te, se ci sono leggi severe contro la violenza sessuale o le molestie, leggi perfino grottesche a volte, che permettono casi come il date rape, per esempio? O per le quali oggi in America nessun professore di Università fa più colloqui con studenti tenendo la porta chiusa? Risponderei che lo è, nonostante l’apparenza, perché è incapace di pensare se non in termini di diritto al godimento, e quindi il limite che esso introduce lo introduce sempre arbitrariamente e provvisoriamente, è sempre un po’ abusivo, e assomiglia facilmente a uno sfruttamento di altro tipo: vedasi processi celebri con relative liquidazioni dei danni. Riuscite voi a capire che cosa c’è di umanamente reale nella mancanza di ‘consenso’ di una ragazza che per esempio ha accettato un appuntamento notturno in camera d’albergo di uno, e che poi lo denuncia perché l’ha toccata? Certo, una società impostata sempre più come un mercato universale del godimento e dei suoi diritti, accentua una dissimmetria antica, perché nessuno che viva dei rapporti fondati su un’etica del desiderio accetterebbe di mettersi nella posizione di fare agli altri quello che l’altro sadiano farebbe a lui: quello che per Sade è l’abominevole criterio cristiano «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», è inscritto nella logica del desiderio: ma perché il desiderio resti a fondamento dell’azione e dell’esperienza del soggetto ci vogliono dei rapporti che possano prendersene cura e che lo rilancino, rapporti non sadiani, rapporti nei quali si possa dire una verità dell’esperienza impossibile a dirsi nel momento della rivendicazione sindacale e politica.

LA CENSURA SESSUALE
Questo vale per chiunque, compresi soggetti che si trovino ad avere desideri cosiddetti omosessuali: ad essi oggi viene proposta solo la modalità sindacale di rapporto, come se la presenza di certi desideri e di certe modalità di soddisfazione bastasse a definire la loro identità reale oltre che sociale, tutto il campo della loro umanità (‘sono’ omosessuale). Anzi, a proposito dell’omosessualità, ciò che oggi colpisce è proprio la ‘feroce forza’ con la quale la questione sessuale viene ridotta (e dunque censurata) a slogan e frasi fatte che non lasciano spazio alle questioni vere e difficili che la vita reale sempre pone ad ogni essere umano.
Forse, se ora affronteranno i problemi e i perché di un rapporto con un figlio sarà possibile parlare dell’esperienza, singolarmente. L’esperienza del desiderio è sempre esperienza di una mancanza, di una divisione, di una differenza da sé: ed è criminale impostare i rapporti sociali in modo da impedire o criminalizzare i luoghi e i rapporti dentro i quali sia possibile ancora dire, e dire bene, questa esperienza. Una battaglia culturale contro questi rischi non può prescindere dal coltivare e proporre tutte le offerte di rapporto nelle quali la persona possa sentirsi ragionevolmente interpellata non come il compatto rappresentante della rivendicazione politica o sindacale con la quale si identifica, ma come un soggetto desiderante, perciò incompiuto e diviso, in cammino dentro un reale nel quale non potrà orientarlo la pseudoverità del politicamente corretto, ma solo il tentativo di dire l’intima e per niente corretta verità della propria drammatica esperienza.
* Docente di psicologia e psicopatologia all’Università Lateranense di Roma

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.