La gente ha votato Trump non perché non ha capito, ma perché ha capito bene

Di Emanuele Boffi
13 Novembre 2020
Ai liberal avrebbe fatto quasi meglio una sonora sconfitta di Biden. Con la sua mezza vittoria continueranno a cullarsi nella loro falsa rappresentazione del mondo

Articolo tratto dal numero di novembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Un po’ per celia e un po’ no, nelle ore in cui tutto il mondo si interrogava sull’esito del voto in Michigan e Arizona, nella redazione di Tempi commentavamo che «ai liberal converrebbe una sonora sconfitta di Biden». Battutaccia tra il sarcastico e il paradossale, ma non così lontana dal vero ci dicevamo tra noi, «perché così almeno uscirebbero dall’incantesimo di quella falsa rappresentazione che si sono dati dell’America e del mondo». Per anni i media liberal ci hanno raccontato un paese sull’orlo dell’abisso, schifato da un commander in chief caciarone e impresentabile, un maramaldo, una zazzera nazista col riporto biondo, un angelo della discordia. Un bug del sistema e un’anomalia che sarebbe stata spazzata via dal popolo che, dopo averlo votato “per errore” quattro anni fa, ora, messolo alla prova, l’avrebbe accompagnato alla porta per far spazio ai buoni e ai competenti che s’informano su Twitter. E poi, invece, niente.

Niente onda blu democratica, niente vittoria schiacciante, niente calcio in culo. Ci hanno rotto l’anima per quattro anni sulle fake news di The Donald e poi la mattina del 5 novembre hanno scoperto che la mega fake news ce l’hanno raccontata loro per quattro anni. Trump ha ottenuto più voti che nel 2016, il divario tra lui e l’avversario negli swing state è minimo, c’è metà del paese che, stavolta, non ha “sbagliato” a votarlo, ma lo ha scelto consapevolmente. Ed è facile pronosticare che, se non ci fosse stato il coronavirus, Trump non avrebbe pareggiato, avrebbe stravinto.

Dove sta l’errore? L’errore è lo stesso compiuto con Hillary Clinton che, quattro anni fa, la settimana prima del voto era data vincente al 96 per cento. Poi, invece, niente. Ed è ricapitato di nuovo questa volta: stessa dinamica, stessa incomprensione. Il giornalista di Repubblica Federico Rampini – uno dei pochi che, da sinistra, cerca da tempo di spiegare ai suoi sodali dove stanno sbagliando – ha scritto che «il grande rigetto di Trump è una favola che ha guarito solo il conto economico di New York Times e Cnn».

<blockquote class="twitter-tweet"><p lang="it" dir="ltr">Anche se Biden prevale, come sembra più probabile... Vittoria striminzita, rapporti di forze quasi invariati rispetto al 2016. Il grande rigetto di Trump è una favola che ha guarito solo il conto economico di New York Times e Cnn. <a href="https://twitter.com/repubblica?ref_src=twsrc%5Etfw">@repubblica</a> <a href="https://twitter.com/hashtag/Election2020?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#Election2020</a> <a href="https://twitter.com/hashtag/Elections2020?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#Elections2020</a></p>&mdash; Federico Rampini (@FedericoRampini) <a href="https://twitter.com/FedericoRampini/status/1324109743284195328?ref_src=twsrc%5Etfw">November 4, 2020</a></blockquote> <script async src="https://platform.twitter.com/widgets.js" charset="utf-8"></script>

Per questo dicevamo tra noi che ai liberal sarebbe convenuta una vittoria su larga scala del mostro Trump: solo così avrebbero davvero capito di aver sbagliato tutto, di nuovo, e forse definitivamente. Così, invece, con una non vittoria o mezza sconfitta o pareggio di fatto che dir si voglia, la sinistra potrà andare avanti a credere che è giusto che il mondo si debba adeguare alla sua rappresentazione e, se non la capisce, è colpa sua (del mondo, non delle sue favole).

Perché la sinistra, ovunque, ha molto più della destra i connotati di una religione, coi suoi riti, i suoi dogmi, i suoi sacerdoti e aruspici, che sono i discorsi sui diritti, sul clima, sui poveri, sul futuro. Discorsi, mica gente concreta. Hanno cambiato il paese – in America come in Italia – attraverso la pressione mediatica e le sentenze dei tribunali, poi però si lamentano quando la gente, votando, fa il contrario rispetto alle loro prediche.

Così continuano a scrivere che sono gli altri a non capire e proseguono imperterriti nel macinare film hollywoodiani sempre più grottescamente corretti, leggi che limitano la libertà di un pensiero dissenziente rispetto al loro credo, interventi educativi nelle scuole per raddrizzare il legno storto dell’umano. Lo fanno nel nome del bene, ovviamente: se il popolo non sta con loro è perché non ha ascoltato bene. Non li sfiora mai il dubbio che è vero il contrario: il popolo non sta con loro perché ha capito benissimo cosa intendono fare.

Trump non è il nostro tipo, lo sapete. Soprattutto perché per noi lui non rappresenta l’alternativa, ma la reazione al sistema. Oggi, ancorché istintiva, questa reazione ha almeno il pregio di indicare che tutte le ricette con cui i progressisti vorrebbero costruire un mondo «così perfetto in cui più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono» sono una sciagura peggiore del male che pretendono di curare. Ma non è indicata nessuna nuova via su cui poter costruire davvero, tant’è vero che al di là e al di qua dell’oceano ci si trova costretti a votare il meno peggio (sperando ne imbrocchi qualcuna) solo perché si conoscono molto bene i danni che farebbero i peggiori che si sentono migliori.

Foto Ansa

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