La via (giudiziaria) all’aborto coatto

Di Carlo Bellieni
07 Febbraio 2002
In Francia, gli ecografisti prenatali si stanno ribellando in massa all’Arret Perruche, una legge che permette al nato handicappato di rivalersi sull’ecografista che non avrebbe visto la malformazione e non avrebbe consigliato l’aborto. E che di fatto, per non rischiare di finire un giorno denunciati, obbliga ecografisti e medici ad accentuare qualunque piccola anomalia e consigliare l’eliminazione del feto nel rischio che nasca “alterato”. Ecco perché è nato un Collectif contre l’handiphobie, contro l’eugenetica dalle “mani pulite” di Carlo Bielleni Neonatologo, Univeristà di Siena

«Da allora, non passa settimana senza che dei genitori chiedano l’interruzione di gravidanza per i motivi più piccoli: il bambino è troppo piccolo, la gravidanza è gemellare… » Così scrivono su Le Monde del 25 gennaio 2002 sedici ginecologi a nome del Coordinamento Nazionale dei Centri di Diagnosi Prenatale. Si riferiscono ad una sentenza della Corte di Cassazione francese del 17 novembre 2000, contro la quale tutti i ginecologi francesi sono scesi in sciopero in questi giorni. Questa sentenza (l’arrêt Perruche, dal nome della famiglia in causa) accordava un indennizzo finanziario personale a Nicolas Perruche, un adolescente nato gravemente handicappato in seguito ad una rosolia prenatale che non era stata diagnosticata durante la gravidanza. Fino a quella data, la giustizia civile ed amministrativa riconoscevano, nel caso che un errore medico avesse dato informazioni alla madre tali da non indirizzarla verso l’aborto, solo il danno ai genitori. Ora viene considerato come “danno da risarcire” il semplice essere nato con handicap, il non essere stato abortito; l’aver negato questa possibilità ai genitori è stato sancito essere un danno per il figlio.

La strana equazione jospiniana

«Noi passiamo il nostro tempo a rassicurare le madri, ad accompagnarle; dovremo d’ora in poi spaventarle? Parlar loro di quello che non abbiamo visto?» continuano i ginecologi francesi. E di ragione ne hanno. Chi potrà trattenere “qualcuno” dal chiedere indennizzi a nome dei nati con handicap, sostenendo che se le famiglia fosse stata “correttamente” informata essi avrebbero potuto fare il bene del bambino, che nel loro linguaggio significa farlo fuori? L’equazione “handicap = vita non degna” ha fatto insorgere centinaia di famiglie di bambini handicappati, che si sono unite nel “Collectif contre l’handiphobie”. Già: contro l’handifobia, la paura dell’handicap. Perché di paura si tratta. Anzi, proprio di fobia. Fobia nel pensare che esista qualcuno che è completamente dipendente da un altro per vivere, ma che non per questo lui e i suoi genitori sono pieni d’astio. Fobia nel pensare che la vita abbia un senso anche quando la persona non ha tutti i requisiti richiesti dalla way of life occidentale. Già nel 1996 il prof Maroteaux, il maggior studioso mondiale di basse stature, scriveva un editoriale sugli Archives de Pédiatrie intitolato zolianamente “J’accuse!” contro l’uso di interrompere le gravidanze in previsione della bassa statura dei bambini! Ma mentre da allora sono stati redatti dei princìpi di “privacy” del feto, in base alla quale si sta discutendo se è obbligatorio dare notizia ai genitori del sesso, altezza del nascituro (cose che potrebbero condurre ad un aborto su basi discriminatorie), ora sembra che nella lotta contro la discriminazione del nascituro “non conforme” si stia tornando indietro. Insomma, come al solito, si usa un discorso pietista per far passare un principio cattivo.

La falsa pietà dei giudici

Si dice che il bambino André Perruche deve essere aiutato economicamente, anche dopo la morte dei genitori (cosa in sé buona) e per far questo si sostiene che i soldi gli sono dovuti come rimborso per essere nato (principio cattivo). Conclusione: essere nato handicappato (non essere stato fatto fuori) è un danno da risarcire. Alla faccia degli handicappati che si sforzano di convivere con la discriminazione e alla faccia delle loro famiglie. Lo scopo reale è questo; tanto che una giurista francese (Marcela Iacub) spiega, in forza di questa legge, che «l’identità di una persona umana gli viene dal modo in cui rientra nel progetto dei genitori» e che è «per il bene del bambino che deve nascere che si può sostituire un embrione malato con un altro embrione sano tramite l’aborto» (Libération 8 gennaio 2002). Questo lo chiama “riparazione integrale” ed è un po’ dire che «non si può, se c’è un’alternativa, imporre l’amore per decreto». L’alternativa di cui si parla è l’eliminazione fisica. Siamo arrivati alla resa di ogni medicina e di ogni pensiero positivo: di fronte alla malattia la soluzione non è più la cura o la solidarietà, ma l’eliminazione.

Una legge (nazional) socialista

È vero, gli ecografisti forse scendono in campo anche per motivi economici: i premi delle assicurazioni per questi motivi sono lievitati; ma è qui l’altra faccia della notizia: siamo giunti alle estreme conseguenze nefaste, le leggi fatte in vilipendio alla morale si ritorcono contro chi le propugnava e/o le applica (in questo caso la quasi totalità degli ecografisti francesi, che ora sembrano trovarsi a dover accentuare i dubbi di malformazioni perché le famiglie non rifuggano dall’aborto, facendo così nascere un potenziale handicappato, potenziale motivo di rivalsa economica).

Ma non è solo un problema economico, se su Le Monde del 24 novembre 2000 trenta giuristi parigini sostengono che questa è una legge fatta in base a «princìpi di eugenetica che porterà domani a scegliere i migliori secondo le regole sociali del momento». Le associazioni delle famiglie di portatori di handicap sono scese pesantemente in campo. «L’arrêt Perruche, spiegano, accentua le discriminazioni nei riguardi delle coppie con figli handicappati, trattandoli da irresponsabili» per aver scelto di metterli al mondo. Non è vero che dare la vita è – o dovrebbe essere- una scelta, così come l’accettazione dell’handicap. Perché non è una scelta libera e umana quella tra dare la vita e dare la morte: dare la morte è sempre una fuga, è sempre una conseguenza di una paura profonda del reale.

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