La Grande Madre è un incubo. Quando arriva il Grande Padre?

Di Caterina Giojelli
27 Settembre 2015
Visita a Palazzo Reale con la sensazione che gli zombie scoprano che sei asserragliata in cantina, aspettando un uomo che ti salvi dal biopunk

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Tesoro, oggi sono stata ad una mostra anticoncezionale: dillo così, con l’occhietto piacevole e un po’ branzino della grande stampa in bianco e nero incorniciata dell’artista britannica Gillian Wearing sulle locandine della mostra La Grande Madre. Dillo così, mannaggia alla Mother Jean della Wearing: pensavi di andare a una mostra sulle madri e invece era sulle madri mostro, alle prese con gli abissi dell’inconscio, la fluidità tra i generi, la meccanica del corpo, l’avvento del post-umanesimo.

Come si esce da un’arena di donne-artiste anarcoidi in lotta contro un ineludibile destino biologico? Cosa si mostra di una madre mostro? Insisti: dov’è il famigerato punto di fuga? Non c’è, anzi a ben vedere c’è: ed è in realtà un refuso. Stupisce piuttosto non trovarlo al piano nobile di Palazzo Reale: quello per intenderci della donna come insieme di cromie degli artisti della Transavanguardia, le icone dipinte e scolpite di Paladino, le poesie di Alda Merini, le danze cromatiche di Kandinskij dedicate alla moglie Nina, le streghe generate dal sonno di Goya, i giochi ottici nei volti cubisti femminili delle donne di Picasso, il microcosmo delle figure fluttuanti di Bella di Chagall, le maternità decorate di Klimt: e dobbiamo continuare? No, è il piano nobile di Palazzo Reale, mica una galleria privata per esposizioni spermicida. O almeno così pensavi prima che La Grande Madre aprisse i battenti per cannibalizzare l’erotismo dei romantici che credono nella vita che si genera alla vecchia maniera – perché, diceva Picasso «per diventare bambini occorre una vita».

Ma non c’è vita nella Gran Madre di Massimiliano Gioni, stretta-costretta tra Jung e Freud, stereotipi sessuali e rivendicazioni femministe, vagine a gogò, feti di bronzo simili a larve, fantocci e feticci; infatti, non ti risparmia nulla, nemmeno la sensazione che gli zombie scoprano da un momento all’altro che sei asserragliata in cantina insieme alle disgraziate creature che, pur in possesso di un potere generativo, sperano ancora nella collaborazione fattiva di un uomo (e di un potere creativo) per dare peso specifico e ospitalità a una alterità chiamata amore.

E che c’entra l’amore qui? Più o meno quello che la Grande Madre dice di c’entrare con il tema di Expo, la nutrizione, o con l’Erpice di Kafka nella sala dedicata alle “macchine celibi”, o con la Fontana di Duchamp che, grazie alla sagoma che ricorda un velo (che in realtà è un volgarissimo orinatoio da piccola stazione di provincia) si conquistò l’appellativo di Madonna del bagno, o la Madonna Fluorescente con la quale Katharina Fritsch «riflette criticamente sulle credenze proiettate su oggetti di culto». Perché La Grande Madre è in fondo questo, un’operazione intellettuale, la ricerca di un significato non convenzionale alle percezioni del corpo e dei suoi desideri e che trova nella donna e nella sua rinuncia al potere generativo la strada per superare le «vecchie distinzioni di genere» e disegnare nuovi ruoli e confini.

I risultati? Da filone biopunk: nel preconizzarsi di una nuova umanità abbiamo perso bellezza – perde mistero il corpo della donna indagato come durante una biopsia medica, reso oggetto quanto più possibile, de-strutturato dalla sua identità più intima che, invece di venire valorizzata, è prostituita allo sguardo e messa sotto vetro o venerata come un totem –, i padri e pure i bambini, l’uomo e la donna restano soli come le due statue di cera di Mother/Child di Kiki Smith, intente in un angolo a darsi piacere ognuno per i fatti suoi.

Poi vedi Me and My Mother di Ragnar Kjartansson che ogni cinque anni realizza un video in cui si fa sputare addosso a ripetizione da sua madre. Sul catalogo si parla di «insolita manifestazione d’amore» e capisci che per te, tradita dal volto sorridente della Mother Jean e asserragliata in cantina, la faccenda si fa ben seria.

Foto Ansa

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